Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

sabato 17 marzo 2012

In vista di un'etica lungimirante. Commentando due post su etica dell'ambiente e antispecismo

Due interessanti post, comparsi su due diversi blog ma – per combinazione – nello stesso giorno, il 15 marzo, offrono un ottimo spunto per riflettere, da due angolazioni differenti, ma a mio avviso complementari, sul rapporto fra etica, scelte (individuali e politiche) e ambiente, ovvero – detto in termini classici e stringati – sulla maniera di considerare e regolare la relazione fra “umanità” (specie umana, o homo sapiens, inteso come singolo e come collettività) e altre specie viventi (condensate simbolicamente nel classico termine: “natura”): annosa ma sempre (più) attuale questione.



Innanzitutto, i post ai quali mi riferisco sono i seguenti:

Non sono un esperto di etica dell'ambiente né di filosofie dell'antispecismo, tuttavia ritengo che con questi filoni di pensiero, e le teorie che sottendono ed elaborano, sia necessario confrontarsi, rispettandoli e ascoltando con attenzione ciò che hanno da dirci.

L'antropocentrismo e le “filosofie del dominio” (chiamo così per esigenze di sintesi qui tutte le teorie che puntano a giustificare il dominio illimitato della specie umana sull'ambiente e – nel caso di esseri viventi – lo sfruttamento e la prevaricazione che l'essere umano opera a danno dei suoi simili o degli animali) mostrano sempre più i loro limiti e la loro incapacità di far fronte ai disastri prodotti dallo sfruttamento intensivo delle risorse e delle energie, a prescindere dalla natura di queste (che si tratti di risorse ed energie offerte dall'ambiente – risorse agricole, minerarie, petrolio, ecc. – oppure di energie, qualità e proprietà di esseri viventi – carni animali, pellicce, lavoro umano ridotto a merce da sfruttare, ecc.).

Mettendo per ora da parte lo sfruttamento “dell'uomo sull'uomo” (che ad es., secondo Caffo, non dovrebbe essere incluso, neppure come parallelo, in un rigoroso discorso antispecista), concentriamoci sull'uso che si trasforma in dominio incontrollato (e quindi in abuso) dell'ambiente da parte dell'essere umano.

Il dibattito sul concetto di natura e sulla sua definizione è ormai ampio, e dura da secoli; come sappiamo, già Rousseau tentava di rivalutare la “natura” rispetto ad una “civiltà” che ne aveva stravolto i dettami (e il filosofo ginevrino era comunque cosciente del fatto che l'uomo “di natura”, ovvero la condizione originaria dell'umanità, capace di essere “in ascolto” della natura e delle sue leggi, non si poteva facilmente riproporre in una società, come quella settecentesca, che pur basandosi ancora prevalentemente su un'economia agraria, era già ampiamente “civilizzata”).
L'altro antagonista storico dell'idea di natura (oltre alla “civiltà”) è il concetto di cultura. E' ormai acquisito che una natura allo stato “puro”, per così dire, non esiste più almeno da quando l'homo sapiens ha cominciato a manipolarla per migliorare le proprie condizioni di vita e dunque a piegarla alle proprie esigenze e ad asservirla (almeno in una certa misura).

Per tutto il Novecento, secolo da poco trascorso, è stato insegnato e spiegato che l'idea stessa che abbiamo della natura è mediata dalla nostra cultura. Che cos'è un campo coltivato? Che cos'è un giardino? Sono natura o cultura?
Un campo arato reca innanzitutto i segni del lavoro umano, e dunque il segno del dominio dell'uomo sulla terra inizialmente ostile, la capacità dell'umano “civilizzato” di piegare e addomesticare, con la volontà e il lavoro, le “forze della natura”, per trarne cibo e sostentamento.

E similmente, un giardino – anche un parco pubblico, ad es. – mostra la capacità dell'essere umano di dare forma a una sua idea di verde, a disegni ideali e dunque a strutture, anche complesse, composte da arbusti, alberi, fiori, aiuole e persino pietre.

La diffusione di determinate coltivazioni, considerate particolarmente utili (perché redditizie, ad es.), e quindi il “successo” di alcune specie di arbusti e alberi, il loro espandersi e proliferare, è stata opera dell'uomo.
Persino sull'evoluzione di determinate specie animali l'essere umano ha influito, selezionando alcune razze e decretando a volte l'oblio di altre (considerate inutili, “improduttive”).
Alcune specie viventi si sono estinte, a causa dell'azione dell'uomo.

Qualche insigne pensatore e docente ha anche affermato che la natura non esiste affatto; esiste solo la cultura che la crea e la forgia.
E' questa, in fondo, la giustificazione ultima della tecnica.

Per quanto tuttavia un'idea “pura” di natura, a differenza di quanto pensassero Rousseau e alcuni suoi contemporanei ed epigoni, sia una chimera, non si può neppure arrivare ad affermare che la natura non esista. E' chiaro che il termine “natura”, per la sua storia e le implicazioni che suscita, e per alcune teorie discutibili del passato (si pensi a certi autori che facevano della Natura, con la maiuscola, una sorta di entità dotata di volontà, quasi una divinità “diffusa” o una Dea Madre), è forse fuorviante.

Si deve più correttamente parlare di ambiente, come suggerisce tra l'altro Bellan (in accordo con altri pensatori attuali).
Penso che si debba partire da questa riflessione. L'ambiente è un dato che non possiamo negare e comprende e coinvolge anche la nostra stessa struttura biologica che si compone di cellule esattamente come quella degli altri esseri viventi; struttura che – al di là di tutte le pretese di dominio proprie di un sistema socio-economico basato sull'idea dell'onnipotenza della tecnica, che ai propri fini accaparra risorse, riducendole a merce della quale avvalersi senza ostacoli né limiti che non siano quelli stessi della tecnica – dipende tra l'altro, per mantenersi in vita ed efficiente dall'acqua, dall'aria e dal sole: elementi dell'ambiente preesistenti rispetto al genere umano e alla sua storia (e dunque indipendenti dalle sue pretese di onnipotenza).

La duplice domanda che Bellan, nel post citato, si pone è chiara – sebbene il problema che essa sollevi sia complesso: può esistere un'etica dell'ambiente? E cosa significa?

Scrive Bellan:

«Parlare di etica dell’ambiente implica [...] l’abbandono del paradigma soggettivistico-produttivistico dualistico (soggetto-oggetto) e accettare, in qualche modo, il paradigma ecologico-comunicativo-sistemico per cui l’uomo è un organismo vivente inserito in un altro sistema vivente, con la differenza che l’uomo, sapendo di essere tale organismo inserito in un tale sistema, ha anche la responsabilità di modificare di conseguenza il proprio comportamento a partire dall’interazione che si instaura fra lui e l’ambiente»

[Bellan, Tesi].

Dobbiamo dunque partire dall'idea che si tratta di un rapporto fra sistemi viventi, nel quale l'ambiente non può essere considerato né trattato alla stregua di un oggetto (e di conseguenza non può essere trasformato in indistinta merce).
Inoltre, l'essere umano non solo non può rivendicare il privilegio del dominio (non essendo lui l'unico soggetto coinvolto nel rapporto), ma deve per giunta farsi carico di una responsabilità: non “onori”, dunque, ma oneri.

Proprio perché comunque – ricollegandoci a ciò che si diceva poc'anzi – l'essere umano è influenzato (nel suo agire, nei suoi valori, nelle sue convinzioni e credenze) non dalla natura ma dalla mediazione operata dalla cultura nella quale è cresciuto e si è formato, l'etica dell'ambiente non può ingenuamente ritenere che l'essere umano stesso «verso la natura [...] possa comportarsi simpliciter come soggetto morale» [Bellan, Tesi].
Non è pensabile, insomma, che l'essere umano riesca spontaneamente a “sentire” l'ambiente come un “soggetto” da trattare e rispettare come tale.

L'essere umano ha però innegabilmente interesse a conservare la propria esistenza e il proprio benessere (non intendendo quest'ultimo in termini di “livello di consumi”, come ormai siamo abituati a fare); e solo comprendendo quanto strettamente la sua esistenza e il suo benessere dipendano dal rispetto dell'ambiente, può dare valore a un'etica dell'ambiente medesimo, sino a introiettarne i princìpi.

«Tuttavia, proprio perché anche l’uomo è un “pezzo” di natura (un essere naturale capace di modificare radicalmente la natura), egli non può non avere un interesse a mantenere, migliorare, difendere quelle condizioni naturali da cui dipende la sua esistenza. L’agire ecologico ha quindi innegabilmente un fondamento materiale, l’interesse all’autoconservazione (Spinoza, Etica: conatus sese conservandi primum et unicum virtutis est fundamentum

[Bellan, Tesi].

Bellan quindi fa dell'interesse alla conservazione degli esseri umani il fondamento che può legittimare e rendere universalmente accettata e operante un'etica dell'ambiente. Parte dunque dal vantaggio collettivo, ovvero dal vantaggio del genere umano nel suo insieme (non però dall'utile individuale). Conclusione molto diversa da quella alla quale giunge Caffo, come si vedrà, il quale non fa distinzioni tra utile individuale e vantaggio collettivo, e li considera entrambi inefficaci ai fini della giustificazione di una teoria correttamente e coerentemente non-antropocentrica (e in particolare non-specista).

In effetti Bellan non accetta l'argomento classico dell'utilitarismo, che ponendo al centro di ogni agire umano l'utile individuale, sostiene che la massimizzazione dell'utile per ciascun individuo porti al benessere collettivo.
Per Bellan invece «il grado di sviluppo della tecnica ormai raggiunto rende inservibile l’argomento utilitaristico dell’agire mosso dalla massimizzazione del vantaggio individuale» [Bellan, Tesi].
Nell'epoca del dominio della tecnica, insomma, le tesi dell'utilitarismo si rivelano inservibili e fallaci.

La tecnica, fungendo da “moltiplicatore” delle azioni dei singoli, porta infatti il principio dell'utile personale a tradursi in pratiche di prevaricazione che vengono meno al rispetto dello spazio comune e di beni (non necessariamente materiali) appartenenti a tutte le persone indistintamente – beni che anzi costituiscono le basi stesse della convivenza.

L'etica dell'ambiente, sostiene Bellan, deve essere anche, per usare un'espressione di Marx (citato dallo studioso), critica dell'economia politica, giacché «una vera etica dell’ambiente non può non includere in sé questo elemento critico, fondato sull’evidenza empirica per cui lo sviluppo della produzione, e quindi la creazione, in un’economia capitalistica, è fondato sulla distruzione» [Bellan, Tesi].
La distruzione, se da un lato, sul breve periodo, opera a favore di alcuni specifici “interessi” (quelli della produzione su vasta scala), dall'altro danneggia a lungo andare le condizioni di possibilità della stessa esistenza, in specie di quella delle generazioni future.

Il perseguimento del vantaggio immediato, a detrimento di ogni altro bene e valore, è una vera e propria forma di egoismo distruttivo e dissipatore.

In sostanza, l'etica dell'ambiente si pone in contrasto rispetto alla tecnica e alle sue esigenze di “dominio incontrastato” del reale; tuttavia non può pretendere di sopprimere la tecnica stessa.

Scrive opportunamente Bellan, in proposito:

«Se la tecnica è guidata da un imperativo produttivistico (“Possiamo farlo, dunque lo facciamo”), l’etica dell’ambiente è guidata dalla domanda: “Ma è sensato farlo?”. Chi manipola la natura, sia a livello fisico che a livello chimico-biologico, deve sempre essere orientato dal principio di responsabilità: come dice Hösle, la tecnica dovrebbe allora saper rinunciare, imparare l’arte della rinuncia. Ma ciò è plausibile, è cioè giustificata questa aspettativa?» [Bellan, Tesi].

La tecnica non si pone il problema del senso ultimo di una scelta e di un'azione, ovvero non si pone questioni che non riguardino strettamente i propri fini e obiettivi: se una scelta porta a maggiore profitto, alla “crescita” e allo sviluppo della produzione, dal punto di vista della tecnica è senz'altro opportuna, indipendentemente dalle conseguenze che essa può avere sulla salute, sull'ambiente, sull'ecosistema, sulle generazioni future, ecc.

Il paradigma “produttivistico” si domanda insomma soltanto se una determinata scelta, una determinata opzione, è tecnicamente possibile (se cioè esistono le condizioni materiali, tecnologiche, produttive e di convenienza economica per mettere in pratica quella scelta, quell'opzione, ecc.); e se è possibile (ed economicamente fruttuosa), ogni altra considerazione non ha alcuna importanza. La possibilità tecnica, in quest'ottica, è già di per sé necessità di operare: ciò che è tecnicamente possibile, dev'essere anche – per questa sola ragione – messo in pratica, realizzato.

(Per fare un esempio: immaginando che io sia l'imprenditore XY, se il petrolio mi procura enormi profitti, una volta che ho appurato – attraverso gli investimenti che ho personalmente fatto nella ricerca – che tecnicamente è possibile estrarlo dal sottosuolo della regione Alfa-Gamma a un costo ragionevole, devo farlo, in base al dominante paradigma “produttivistico”; e questa necessità rimane intatta anche se vengo a sapere che le mie trivelle, i miei pozzi o le mie piattaforme possono recare seri danni all'ambiente; gli investimenti che ho fatto mi porteranno non solo a trascurare ogni considerazione che non riguardi strettamente il mio profitto – come se l'ambiente non riguardasse anche me, in quanto essere umano che ne fa parte e che per giunta da esso trae vita! – ma persino ad oppormi con ogni mezzo all'eventuale intervento di autorità pubbliche intenzionate a tutelare l'ambiente, e arriverò magari a tentare addirittura di dimostrare, tramite mass-media ed “esperti” compiacenti e “ben ricompensati”, ecc., che il petrolio non inquina in nessun caso, anzi se sparso in mare in grandi quantità fa bene alla pelle...).

L'etica dell'ambiente si fonda su un paradigma diverso, che spesso entra in conflitto con quello della tecnica. La possibilità tecnica, alla luce dell'etica dell'ambiente, infatti non ha intrinsecamente valore, e non si trasforma automaticamente in necessità di operare, poiché la questione essenziale che essa si pone è la sostenibilità ambientale delle varie scelte e opzioni; ovvero, l'etica dell'ambiente si interroga sull'incidenza (positiva o negativa) che una determinata scelta può avere sull'ambiente, sull'ecosistema, sulla salute pubblica, ecc.

E' dunque il senso complessivo insito in una particolare opzione o scelta, che per l'etica dell'ambiente ha rilevanza, come Bellan evidenzia. Secondo questo approccio, non è sufficiente considerare le “ricadute immediate” e visibili di una determinata opzione “tecnica”, né sono sufficienti le valutazioni riguardanti la sola convenienza economica (di chi, poi? di quali soggetti?); il senso vero di una scelta, che produca conseguenze significative sull'ambiente e/o sulla collettività, non si esaurisce nel suo aspetto puramente economico (in termini di convenienza, redditività, ecc.). E' questa la ragione per cui non tutto ciò che è immediatamente e tecnicamente possibile e realizzabile deve anche, solo per questo motivo, essere messo in pratica, prodotto, realizzato, ecc.

Tuttavia, come fa notare Bellan, non è facile immaginare una tecnica che sia in grado di apprendere «l'arte della rinuncia» e di farla propria, poiché questa contraddice le stesse basi del paradigma “produttivistico” che la tecnica rappresenta. Il principio di responsabilità, al quale lo studioso si richiama, è in effetti il “grande assente” dell'apparato socio-economico che si fonda sul “dogma circolare” (che di fatto, col suo fascino pragmatico, ha preso il posto di ben altri e meno remunerativi dogmi): produzione incessante/crescita infinita/espansione illimitata dei mercati e dei consumi/accumulazione di capitale/investimenti e conseguente sviluppo della tecnica/produzione incessante/(ecc.).

Oltre a ragionare sulle difficoltà che il rapporto inevitabilmente ormai “non ingenuo” e “non innocente” tra umanità e ambiente porta con sé (fra le quali va inclusa l'azione distorsiva delle lobby, che non di rado fanno pressione su istituzioni e opinione pubblica per ottenere scelte favorevoli ai propri interessi ma contrarie al bene comune), Bellan sottolinea che, se «Agire moralmente significa [...] essere sempre davanti a veri e propri dilemmi morali e a scelte criticabili e dunque costitutivo dell’azione moralmente rilevante è proprio la prevedibilità solo parziale o anche la totale imprevedibilità delle conseguenze, la loro non-calcolabilità e, nondimeno, criticabilità » [Bellan, Tesi], ne consegue che i vantaggi immediati di una scelta non possono essere una giustificazione moralmente valida per trascurare i pesanti rischi futuri (anche per le generazioni successive) che la scelta comporta, anche se questi al momento sono solo probabili in quanto ancora non visibili e misurabili:
«per fare un esempio, visto che non conosciamo se e come gli ogm potrebbero danneggiare la nostra salute, il non commercializzarli liberamente è più etico che farlo (anche se commercializzarli sarebbe giustificato a sua volta eticamente, ma apparentemente, dalla creazione hic et nunc di posti di lavoro, investimenti, riallocazione delle risorse, ecc.)» [Bellan, Tesi].

Fare una scelta morale significa anche accollarsi il rischio che quella scelta comporta; il fatto che vogliamo evitare di accollarci rischi – sottolinea tra l'altro Bellan – non è una motivazione sufficiente per sottrarci alla necessità etica di scegliere, specialmente se chi deve scegliere è un soggetto politico incaricato di assumere decisioni valide per intere collettività (un decisore, in termini tecnici). Questo vale per qualsiasi etica, e dunque anche – se non a maggior ragione – per l'etica dell'ambiente.

Lo studioso respinge il contrattualismo in quanto non adatto a porsi come fondamento di un'etica di questo genere: «L’ambiente, infatti, non può essere un partner morale: non può essere titolare di diritti, né di doveri, quindi non ci potrà mai essere un “contratto” con animali, piante o ecosistemi (nonostante la Convenzione sulla Diversità Biologica del 1992 avanzi un’ipotesi in tal senso)» [Bellan, Tesi].

In effetti, come Bellan nota, non è facile, nelle condizioni attuali, ipotizzare un fondamento teorico solido per un'etica dell'ambiente; egli propone di partire «da un’etica ecologica, ispirata kantianamente, del rispetto» [Bellan, Tesi] e opportunamente sottolinea che 


«Per la fondazione di un’etica dell’ambiente un’etica basata sulle conseguenze è condizione necessaria ma non sufficiente. L’ideologia della tecnica ha infatti se non spezzato almeno reso difficile per gli uomini riconoscere i risultati delle loro azioni come prodotti dalle loro decisioni: il noto esperimento di Milgram conferma con precisione scientifica la tendenza ad autoassolversi anche per azioni in cui il nesso causa-effetto è ancora evidente, quindi non è ragionevole supporre che chi guida un’automobile si senta responsabile delle emissioni di CO2, così come chi mangia un filetto si senta responsabile dell’uccisione del manzo di cui quello era una parte» [Bellan, Tesi].

Bisogna comprendere ciò che qui lo studioso intende dire. Se interpreto bene il suo ragionamento, egli non afferma che i comportamenti individuali sono ininfluenti (e che quindi non possiamo esser ritenuti responsabili se, come individui, facciamo scelte contrarie al rispetto dell'ecosistema, della vita animale, ecc.); sostiene invece che non si può puntare soltanto ed esclusivamente sul senso di responsabilità degli individui per costruire un “paradigma di vita” basato sull'etica dell'ambiente (e non più sul “produttivismo”). Ne deduciamo che, in sostanza, non può essere il principio generale di responsabilità (cioè l'ideale della piena consapevolezza, da parte di ciascuno, delle conseguenze delle proprie scelte) il fondamento primario di una tale etica, anche se, per ciò che si è detto prima, è comunque un principio che in prospettiva deve far parte dei valori di ciascuno e influire sui comportamenti diffusi (la via da percorrere, per arrivare a un simile risultato, è per il momento in gran parte da costruire).

Il problema sta in questo: gli individui non sempre (ovvero, non tutti e, soprattutto, non in ogni circostanza) hanno le cognizioni e gli strumenti analitici per decidere liberamente e comportarsi come soggetti realmente autonomi e razionali, anche perché la cultura che ci ha formati e che struttura le nostre concezioni del mondo e i nostri comportamenti, in quanto “seconda natura”, in realtà ci rende incapaci di “ascoltare” in modo diretto e immediato – come Rousseau avrebbe voluto – la “natura prima”, o meglio le “ragioni” dell'ambiente in quanto tale. E si tratta di un'incapacità costitutiva, nel senso che anche se riusciremo a porre le basi per un'autentica etica dell'ambiente, non per questo saremo in grado di tornare ad essere “buoni selvaggi”, completamente liberi dai condizionamenti di una qualche cultura e perciò capaci di “sentire” in maniera immediata le ragioni dell'ambiente (ammesso che, nel suo “integralismo”, questa possa mai essere per l'umanità una condizione auspicabile).

Per quanto riguarda poi il post di Leonardo Caffo, non mi addentrerò nell'analisi particolareggiata dell'antispecismo (per la quale rinvio, oltre e più che al post in questione, alle riflessioni ripetutamente fatte su questo tema in un blog particolarmente curato e attento, “Il Dolce Domani”).

Ricaverò però dal post soprattutto alcune considerazioni che completano, da un altro punto di vista, il ragionamento sin qui fatto.
Anzitutto, Caffo fa notare che non vi è un solo antispecismo, ma ne esistono almeno due (e lui, al termine dello scritto, ne propone un terzo): nulla di nuovo: anche del liberalismo, ad es., si può dire che non ve n'è soltanto uno, poiché ci sono in realtà più liberalismi; e così dicasi del socialismo, o del femminismo, così come del materialismo, del buddhismo, ecc.

Le diverse sfumature di un'idea dimostrano ogni volta la ricchezza della capacità creativa e intellettuale dell'essere umano – ed anche, o forse soprattutto, la vitalità di una particolare idea, di una particolare scuola di pensiero (il fatto cioè che un'idea abbia cominciato a diffondersi e a fungere da punto di riferimento in grado di sollecitare sensibilità diverse).

Un'osservazione importante che Caffo fa riguarda lo stesso uso comune, generico e impreciso, del termine “animale”: è dal cattivo uso del linguaggio che a volte derivano “abusi” che coinvolgono le concezioni (più o meno diffuse) del mondo.

«La parola ‘animale’, come fece notare il filosofo francese Jacques Derrida, risulta essere un’enorme trappola concettuale. Da un punto di vista tecnico, con il termine ‘animale’, dovremmo designare l’insieme di tutte le specie animali presenti in natura: dalla specie dei Diomedea exulans a quella, a noi tanto cara, di Homo Sapiens. Discriminare, ma anche semplicemente discutere di animali, in senso generico, è come decidere di duellare ferocemente con la nebbia. Dire “gli animali non pensano”, oppure discutere di “animali come automi privi di linguaggio”, significa non dire esattamente niente a meno che, ed è impossibile vista l’enorme varietà di specie animali, molte delle quali sconosciute, non fossimo in grado di fare un elenco di tutti gli animali, eccetto l’uomo, e di dimostrare quanto stiamo dichiarando»

[Caffo, Il terzo].

In effetti, quando attribuiamo genericamente – o non attribuiamo – determinate qualità agli animali indistintamente, quali specie abbiamo in mente? – tenendo conto che il nostro pensiero non le può avere tutte presenti nello stesso istante, né possiamo affermare di conoscere personalmente tutte le specie viventi del pianeta...
Siamo sicuri che una qualità propria delle formiche si possa attribuire tranquillamente anche ai leoni, o viceversa? Non si tratta forse di un “abuso di analogia” dovuto proprio al termine generico che adoperiamo (“animali”)?

E se Cartesio riteneva che gli “animali” fossero letteralmente “automi” in quanto incapaci di esprimersi mediante un linguaggio, le ricerche degli ultimi decenni hanno dimostrato che si sbagliava: per quanto si è potuto finora accertare, alcune specie animali (dalle api alle balene, passando per gli scimpanzé e i gorilla) possiedono e adoperano senz'altro un loro linguaggio. Addirittura, queste ricerche, mettendo in luce l'esistenza di capacità sofisticate di apprendimento da parte di talune specie, hanno rilevato l'esistenza dell'individualità anche al di fuori della specie umana. E così, «Ogni individuo, in quanto rappresentante di una specie, a meno di malformazioni o problemi di sorta, è portatore di tutta una serie di abilità che vanno solo aggiunte alla sua sfera personale che, in quanto unica e irripetibile, risulta essere ancora più ricca e complessa» [Caffo, Il terzo].

Nell'infinita differenza che il “mondo animale” costituisce, «Ogni specie (ammesso che esista, davvero, qualcosa come la ‘specie’ in senso stretto) è un enorme contenitore di vite in grado di stupire attraverso qualità uniche per altre» [Caffo, Il terzo].

Se questo è vero, si domanda lo studioso (e con lui la teoria antispecista), perché mai una particolare qualità – la capacità di pensiero e di parola, ad es. – dovrebbe creare una sorta di barriera che divide e separa la “civiltà umana” dalla “barbarie animale”?

Noi – nota Caffo – siamo portati erroneamente a individuare «in proprietà corporee delle qualità morali» e, arriva ad aggiungere lo studioso, «Non esistono buoni argomenti che vedano nella mente umana, piuttosto che nella mimesi della piovra, l’epicentro della moralità» [Caffo, Il terzo].

Se, come afferma Peter Singer (pensatore australiano, uno dei pionieri della filosofia antispecista), lo specismo è «Un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie» [Caffo, Il terzo], ne deriva che non si possono fare distinzioni e discriminazioni fra le specie sulla base della loro maggiore o minore “prossimità” al modello dell'homo sapiens pensante e parlante.

Però, secondo Caffo, volendo sfuggire a questa “trappola” concettuale, Singer se ne costruisce un'altra analoga: siccome «Piuttosto che salvare chi parla o pensa, Singer salva chi soffre» [Caffo, Il terzo], anch'egli finisce di fatto per far coincidere una proprietà corporea (la capacità di provare dolore) con una categoria morale.

Vi è un antispecismo più “politico” di quello di Singer, e ne è fautore principalmente David Nibert, per il quale lo specismo non è semplicemente un “pregiudizio”, ma «un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali» [Caffo, Il terzo]: secondo questa prospettiva, quindi, lo specismo non è “innato” o ancestrale, ma è uno dei corollari del moderno “paradigma produttivistico” di cui si discorreva poc'anzi. E' il “dogma circolare” dell'etica “produttivistica” (se etica si può propriamente definire...), già descritto, a creare e forgiare lo specismo, per fare degli animali semplici risorse da sfruttare e dalle quali trarre profitto, senza preoccuparsi della loro natura di esseri viventi.

Una delle conclusioni che si traggono da questa impostazione più “politica” dell'antispecismo suona così: se è vero che «la società opprime tanto gli uomini che gli animali» e se è vero che «gli animali stanno peggio ma il meccanismo logico di oppressione è identico», allora «solo liberando gli animali liberi gli umani» [Caffo, Il terzo].

Secondo Caffo, però, l'antispecismo politico rivoluzionario di Nisbet è criticabile in quanto è sostanzialmente affetto da “criptospecismo” esattamente come la teoria di Singer (ma per ragioni differenti).

In sintesi [per i dettagli del ragionamento, rinvio al post di Caffo], posto che l'oppressione esercitata sugli animali avviene nelle stesse forme in cui si esercita l'oppressione dell'uomo su altri uomini, l'antispecismo “politico” ne deduce che solo liberando gli animali – i più oppressi fra gli oppressi – si può pervenire alla liberazione da ogni forma di oppressione generata dal paradigma “produttivistico”. Caffo, condividendo la premessa ma non la conseguenza che gli antispecisti politico-rivoluzionari da quella ricavano, obietta: 
«Se è certamente vero che animali e umani sono sfruttati in modo logicamente simile [...] non abbiamo nessuna evidenza, né argomenti di qualche tipo, per credere che la liberazione degli animali implichi (ovvero segua necessariamente) quella degli umani [...]. Non abbiamo evidenze storiche, non abbiamo evidenze logiche che non permettano di immaginare mondi possibili in cui gli umani stanno benissimo sfruttando gli animali, e non abbiamo quindi nessuna prova del ragionamento che stiamo facendo» [Caffo, Il terzo].

Il ragionamento degli antispecisti “politici” fa leva su un ipotetico interesse generale dell'umanità a liberarsi da ogni forma di oppressione, e quindi giustifica la richiesta di abolire l'oppressione degli animali in quanto questa porterebbe benefici all'umanità (in termini di liberazione). E qui viene alla luce appunto, per Caffo, il “criptospecismo” (o il “cripto-antropocentrismo”) di questa tesi (e si rivela una sostanziale differenza fra l'impostazione di Bellan, già esaminata, e quella di Caffo).

E' chiaramente esposta la perplessità dello studioso:
«Se muoviamo in direzione della liberazione animale soltanto, o soprattutto, o anche, perché questa libera gli umani allora stiamo esattamente facendo il gioco di Singer: troviamo un nostro tornaconto nella questione. Il filosofo australiano cercava umanità negli animali per salvarli, ponendo l’uomo a misura dell’ethos; gli antispecisti politici cercano un vantaggio per l’umanità nella loro battaglia animalista per salvarsi, ponendo anch’essi il bipede implume al centro della teoria etica» [Caffo, Il terzo].

Per la verità, c'è un argomento degli antispecisti “politici”, che Caffo ritiene comunque accettabile – ma in effetti nel post viene appena accennato – ed è la critica radicale che essi fanno «alla società dei ‘diritti’ come mancante in sé e per sé delle condizioni che rendono possibile libertà e liberazione della vita» [Caffo, Il terzo].

Si comprende anche perché Caffo non si impegni a discutere a fondo questo aspetto della teoria dell'antispecismo “politico”: la critica alla “società dei diritti” va al di là della specifica questione dello specismo e richiede una rielaborazione di buona parte delle categorie politiche correnti, e dello stesso lessico abituale di una parte non piccola della galassia dei movimenti che rivendicano giustizia sociale e si spendono per la liberazione della società dalle varie forme di sfruttamento e di oppressione.

Sembra esserci poi – fa notare lo studioso – un ostacolo forte all'affermazione e alla capillare diffusione di una mentalità antispecista: come qualche autore rileva, 


«L’uomo è, per sua stessa natura, una macchina produttrice di ontologie dove, i simili – o presunti simili – come i membri della stessa specie, sono tutelati e privilegiati a tutto il resto nello stesso modo in cui, un padre di famiglia, non sacrificherebbe mai un figlio per un estraneo. La specie Homo Sapiens è un’enorme famiglia: per un suo appartenente, diciamo a voler essere più cauti, per la maggior parte dei suo appartenenti, quelli che stanno in altre famiglie (altre specie), vengono dopo» [Caffo, Il terzo].

E' una constatazione di prudente realismo analoga a quella che Bellan fa – come si è visto – rispetto alla possibilità di generalizzare in maniera “diffusiva” il senso di responsabilità nei confronti dell'ambiente.

C'è un limite alla possibilità di trasformare hic et nunc, qui ed ora, attraverso un discorso affidato alla pura razionalità, i comportamenti diffusi degli esseri umani, a causa – come già si diceva – della “seconda natura”, ovvero della cultura nella quale essi vivono, cultura che orienta e in qualche misura plasma i loro valori, le loro aspettative e le loro scelte.

Caffo, prendendo atto di questa innegabile difficoltà, arriva a dire: «La conclusione di tutto questo è una e una sola: l’antispecismo, così per come lo conosciamo fino a oggi, non esiste perché è solo un tentativo moderatamente specista di salvare gli animali dalla natura umana» [Caffo, Il terzo], in quanto anche i teorici dell'antispecismo finiscono in genere per essere influenzati dalla cultura diffusa “specista” che li circonda – o per venire a patti strategicamente con essa (sacrificando così tuttavia, in nome dell'efficacia “retorica”, la coerenza etica delle proprie tesi).

Cercando una via d'uscita, e desiderando comunque dare un fondamento rigoroso ad una possibile teoria antispecista, Caffo auspica l'affermarsi di un “terzo” antispecismo basato sulla disobbedienza “militante”: si veda il post citato per avere maggiori ragguagli (e per conoscere la sua conclusione davvero radicale, che pone a tutti noi un aut aut che è anche un profondo, doloroso dilemma etico ed esistenziale – mi limito soltanto a far notare che la coerenza assoluta, tale da spingere persino a sacrificare la propria “vita tranquilla”, che la soluzione proposta da Caffo richiede per poter essere messa in atto, è di pochi, o forse di pochissimi: un'etica che richieda quotidianamente "virtù eroiche" non può essere un'etica largamente condivisa, un'etica "di massa", insomma; eppure, a mio parere, c'è bisogno di modificare proprio la mentalità diffusa, per incidere seriamente sulla forma di convivenza attuale che si basa sullo sfruttamento illimitato e sul "produttivismo" a oltranza).

Sembra quindi che Bellan proponga una soluzione che lavori sui tempi lunghi – una soluzione “paziente”, dunque, che tenga conto della difficoltà di estendere a tutti, qui ed ora, la consapevolezza relativa alle conseguenze delle proprie scelte quotidiane – per giungere a una matura etica dell'ambiente; e che Caffo invece ritenga che ogni tappa intermedia (lo “specismo moderato”, come lui lo definisce) finisca soltanto per sviare dalla coerenza teorica ed etica che, sola, può condurre ad una vera coscienza antispecista.

Benché apparentemente gli oggetti su cui si focalizza il discorso dei due studiosi (l'etica dell'ambiente in un caso, l'antispecismo nell'altro) siano differenti, in realtà si tratta di due questioni che in qualche modo s'intrecciano fra loro; se è vero – come sostiene Caffo – che nessuno può garantirci che la liberazione delle specie animali possa portare, per sua “intrinseca virtù”, alla liberazione definitiva da qualsiasi forma di oppressione (è infatti una tesi ancora tutta da dimostrare: non falsa in sé, si badi, ma non ancora sufficientemente provata), o al superamento del “paradigma produttivistico”, è a mio avviso altrettanto vero che tanto l'ipotesi di un nuovo paradigma teorico e sociale, che si fondi su un rapporto non gerarchico e non “produttivistico” tra essere umano e ambiente, quanto l'elaborazione di un universo di teorie e prassi antispeciste, rappresentano tentativi oggi più che mai “necessari” di porre in discussione il fondamento “predatorio” e dissennato del modello di vita che tutti ci plasma e, plasmandoci, ci trascina con sé.

Ciò significa che la presa di coscienza e il mutamento di mentalità (o il vero e proprio “salto” da un “campo” etico e valoriale che finora ci è familiare ad un altro, profondamente diverso e per noi ancora “alieno”) che i due percorsi teorici richiedono – o meglio ci chiedono – possono contribuire, in prospettiva, a ridimensionare (e al limite a mettere fuori gioco) lo strapotere del “paradigma produttivistico”, che oggi, per mancanza di alternative “operative”, costituisce il “senso comune” nel quale tutti si adagiano, ritenendolo lo “stato naturale” delle cose (e, per quello che si è già detto, non si tratta in realtà di “stato naturale”, ma “culturale”, e quindi della “seconda natura” che orienta in maniera pervasiva la nostra visione del mondo e i nostri comportamenti individuali e sociali).

Scardinare le illusioni e porre in evidenza gli errori di prospettiva generati (le une e gli altri) dall'antropocentrismo imperante, e quindi sottrarre legittimità e tacito (o fattivo) consenso ai deliri di onnipotenza del “produttivismo”, figlio particolarmente ambizioso, nella sua avidità, dell'“abbaglio antropocentrico” – e in pratica, quindi, sostenere e condividere un obiettivo che accomuna l'etica dell'ambiente e l'antispecismo – significa ridare vitalità, consistenza e valore all'etica, intesa sul serio come etica della convivenza, trascritta forse meglio come “con-vivenza”, ovvero esistenza condivisa da una pluralità di specie viventi che si trovano in un ambiente che è comune (o meglio: è fonte e condizione della vita comune) e non può perciò essere dato in consegna (come una specie di “delega in bianco”) all'interesse di pochi – che prevalgono solo perché più prepotenti e avidi, non perché “migliori” (checché ne dica l'allegra scuola del darwinismo "politico" e "sociale", tesa a produrre dottrine che giustifichino i vincitori, come i vecchi storici cortigiani): e che non siano affatto “migliori” lo dimostra la scarsa lungimiranza dell'azione di sfruttamento intensivo e dissennato di risorse, da loro posta in essere, che alla lunga – se lasciata a se stessa, e dunque consegnata interamente al cinico, e follemente autoreferenziale, “paradigma produttivistico” – crea impoverimento dell'habitat anche umano, oltre che inquinamento, e quindi avvelenamento anche della specie umana. (Tanto che viene spontaneo commentare con amara ironia: Complimenti, cari “migliori”! Ottimo risultato!)


Testi citati:

- [Bellan, Tesi]: A. Bellan, Tesi sull'etica dell'ambiente, nel blog "Prismi - Pensieri filosofici", URL: http://prismi.wordpress.com/2012/03/15/tesi-sulletica-dellambiente/

- [Caffo, Il terzo]: L. Caffo, Il terzo antispecismo. Stato dell'arte e proposta teorica, nel blog "minima & moralia", URL: http://www.minimaetmoralia.it/?p=7009

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