Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

giovedì 22 marzo 2012

Quando diciamo che "X" (natura, storia, individuo...) non esiste

Le considerazioni che seguono si collegano alle riflessioni fatte in due precedenti post: In vista di un'etica lungimirante, e Coscienza etica e/o processi storico-politici, dei quali costituiscono una nota a margine. (Ma valgono anche come annotazioni a sé stanti.)

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Personalmente tendo a diffidare delle tesi ad effetto. Ricordavo nel primo dei post succitati: «Qualche insigne pensatore e docente ha anche affermato che la natura non esiste affatto; esiste solo la cultura che la crea e la forgia.
E' questa, in fondo, la giustificazione ultima della tecnica.»



Ogni tanto c'è qualcuno che, facendo coincidere l'elaborazione teorica con la ricerca dell'iperbole a tutti i costi, ci viene a dire che “non esiste la natura”; oppure che “non esiste la storia”; o che “non esiste l'uomo”, “non esiste l'individuo”; eccetera. Si potrebbe di questo passo arrivare a dire che di fatto non esiste niente. E anche questa affermazione sarebbe discutibile, in fondo: giacché, se non esiste niente, esisterà almeno il Nulla? O anche questo è incluso in quel “non”, e dunque neppure del Nulla si può stabilire con tranquillità l'esistenza?

Al di là dell'ironia, anche affermazioni “estreme” (e talvolta, nel loro “estremismo”, iperboliche), come quelle riportate, hanno un loro senso, perché sfatano alcune convinzioni radicate che rasentano il pregiudizio, e ci costringono a riflettere sui fondamenti “ultimi” (forse inesistenti, come tali) delle nostre tesi e teorie – l'ho già fatto notare a proposito dell'“inesistenza della Natura”, affermazione che ha una sua ragion d'essere [si veda In vista di un'etica...].

E tuttavia... Tuttavia, affermazioni così nette non possono porsi come “assoluti” (esattamente come le asserzioni che intendono rovesciare: l'esistenza della natura, della storia, dell'uomo, ecc.); devono cioè indicare e delimitare le loro condizioni di validità.

Ad es., facendo riferimento alla questione dell'individuo (ovvero al dilemma: esiste o non esiste nella realtà quel “qualcosa” che in astratto definisco “individuo”?), se io mi gratto il naso, chi in realtà compie questa azione, se postuliamo che non esistono enti definibili come io, come individuo, soggetto, ecc.? Dato per buono questo paradigma, se mi gratto il naso, non essendo io a grattarmelo, è l'umanità che gratta un qualche naso? O addirittura è lo stesso atto di grattarsi il naso che è inesistente? (Forse perché l'ente che compie l'azione non esiste, e dunque neppure l'atto riconducibile a quell'ente può esistere?)

Eppure, benché la teoria mi dica tutt'altro, io constato che qualcuno gratta un qualche naso... L'esperienza è dunque tutta da buttare, da tenere in sospetto, secondo le “teorie dell'inesistenza”, se prese alla lettera. Ma perché, quando, come? E perché tutta l'esperienza, senza altre specificazioni?
Forse si vuole semplicemente dire che nessun atto è realmente libero, e che dunque mi gratto il naso perché l'abitudine, la mia cultura, la società, mi hanno insegnato a compiere quell'atto, e io non faccio che replicarlo. Non l'ho creato dal nulla, quell'atto, non l'ho inventato; lo replico, dunque non è farina del mio sacco, e come individuo non mi distinguo da milioni di miei simili che fanno la stessa cosa, magari in questo stesso momento.

Tuttavia – si può ancora obiettare – il prurito che avverto, e che mi costringe a grattarmi, lo sento io, nessun altro può avvertirlo al mio posto; dunque il prurito almeno mi appartiene, è mio, è strettamente individuale. E del resto, posso introdurre varianti personali alla maniera di grattarmi, che modificano in qualche punto il modo socialmente “codificato” di grattarsi il naso.
Ma ulteriori obiezioni possono mettere in dubbio la validità di questa mia osservazione (anche l'identificazione di qualcosa che chiamo “prurito” è una nozione che ho appreso socialmente, dunque non è mia, individuale...); e così via, potenzialmente all'infinito...

In realtà, quindi, sotto determinate condizioni, si può dire che postulare l'esistenza dell'individuo – o dell'io – spiega determinati fatti e comportamenti; sotto altre condizioni, il concetto di individuo è invece fuorviante, o inessenziale, o carente di verità.

Sbagliamo se consideriamo l'individuo come assoluto o addirittura come “l'alfa e l'omega” di ogni cosa (e lo stesso discorso vale se al posto dell'individuo poniamo la storia, la natura, la società o qualche altro ente o concetto); ma ci inganniamo anche se pretendiamo di affermare – snobbando il confronto con l'esperienza – che l'individuo “non esiste” tout court, senza aggiungere le “coordinate” specifiche che, mettendola coi piedi per terra, rendono più concreta – ma anche meno pretenziosa – la nostra “scoperta copernicana”.

Per quanto mi riguarda, non ritengo sia teoricamente “fruttuoso” (al di là dell'effetto-scoop, che può catturare il lettore) rinnegare sistematicamente i dati dell'esperienza (assodato comunque che non bisogna fare di questi ultimi un “totem” posto al di sopra di ogni necessità di rigorose verifiche); e perciò, se un “ente x”, in un dato momento y, nella località z, si gratta il naso – qualunque sia il nome che a quell'ente x noi vogliamo convenzionalmente attribuire (“soggetto”, “io”, “individuo”, ecc.) – non ce la possiamo cavare semplicemente sostenendo che l'“ente x” non esiste (anche se ce l'abbiamo davanti agli occhi, e anche se magari siamo noi stessi quell'ente x!) sol perché non è sufficientemente provato in teoria che esista, oppure – e forse è la motivazione prevalente – perché non ci si mette d'accordo sul nome più appropriato da attribuirgli/le (“individuo”? “soggetto”? “io”?).

Poi, è chiaro, sussiste il problema di definire cosa sia in dettaglio un “soggetto”, cosa sia un “individuo” (ciascuna di queste definizioni esprime un concetto peculiare: “soggetto”, cioè, non è esattamente la stessa cosa di “individuo”, ecc.); ma, per quanto importante sia, la questione delle definizioni non deve porsi come un ostacolo “paralizzante” rispetto alla necessità (vitale per ogni teoria politica o sociale) di analizzare e descrivere le “forze in campo”, gli “agenti” della realtà.
Né l'assillo delle definizioni deve indurci a “gettare il bambino insieme all'acqua sporca”, come si suol dire, facendoci esclamare: Poiché non mi soddisfa la definizione che si dà dell'ente x, ne ricavo che non posso dire nulla in merito a x medesimo, e anzi per me – essendo indefinibile allo stato attuale – non esiste neppure!

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