Grazie
alla segnalazione di Loredana Lipperini, che l'ha pubblicata
integralmente nel suo blog, ho potuto leggere una lettera che
l'economista greco Yanis Varoufakis ha scritto al suo collega
italiano Giulio Ecchia, il quale l'ha letta nell'ambito
dell'iniziativa “Cuore di Grecia”, organizzata da “Teatri di
vita” [il testo integrale lo trovate anche sul loro sito].
A mio
giudizio, è utile e importante che la leggiamo tutti/e, perché in
maniera semplice e a tratti “passionale” disegna un quadro –
non strettamente “tecnico”, e quindi non riservato a circoli
“esclusivi” di “addetti ai lavori” – della situazione in
cui noi, abitanti dell'Europa meridionale, in questo momento ci
troviamo.
Non a
caso parlo di “quadro” anziché di “bilancio”. Si tratta
infatti di riflessioni che toccano l'aspetto sociale, il “vissuto”,
le condizioni di vita, le aspettative di chi vive in Paesi come la
Grecia o l'Italia, piuttosto che le nude questioni finanziarie,
monetarie, industriali, ecc. (in effetti, parlare di “nude”
questioni tecniche è spesso il modo migliore per tenere ben
distante, onde proteggerlo dal rischio di “interferenze
indiscrete”, il sapere dalle cose e dalle vite;
ma il sapere che non “annusa” e non tocca le vite alle quali
pretende di rivolgersi rischia sovente di restare sterile e
inapplicabile, come un teorema campato in aria).
Varoufakis
inizia la sua “lettera aperta” ricordando un'altra Italia
e un'altra Grecia, quelle dell'immediato dopoguerra. E cita in
proposito un film memorabile di Vittorio De Sica, Ladri di
biciclette, per poi osservare come le società greca e italiana
abbiano perso memoria di quel periodo “eroico” e difficile della
ricostruzione, dimenticando la miseria, le privazioni e le
difficoltà, per tuffarsi senza pensieri e senza remore nella
“società del benessere”, nella quale la televisione ha
sostituito via via la tradizione culturale di De Sica, Fellini,
Cacoyannis, ecc.
Eppure
non molti anni separano l'era di Ladri di biciclette e l'era
della televisione. Il fatto è che si vive sempre la miseria solo
come un ricordo terribile da cancellare il prima possibile, e in
questo atto di totale oblio, di inappellabile condanna che la memoria
infligge a un'epoca detestata di sofferenza e privazioni, finisce per
cancellarsi presto, troppo presto, anche l'insegnamento che le
difficoltà ci hanno dato, ovvero quella parte di verità che
nel bisogno estremo siamo stati costretti a imparare – ad
esempio la necessità della solidarietà, della cooperazione; la
constatazione che “non ci si salva da soli”, ecc.
Sembra
poi davvero che il “boom”, il “benessere conquistato”,
stravolgendoci per l'improvvisa ubriacatura, ci abbiano rapidamente
ammaestrato (e che bravi, bravissimi allievi, noi!) circa i vantaggi
dell'“egoismo proprietario” e dell'“individualismo
maniacal-rabbioso-intollerante” (talora in bilico fra una sorta di
misantropia di massa, il delirio corale di onnipotenza e la paranoia
collettiva), che nel caso italiano si è sposato a meraviglia con la
tradizionale tendenza alla cura del proprio personale “particulare”,
già magnificata dal Guicciardini.
Dunque
fa bene, fa benissimo Varoufakis a ricordarci da dove veniamo, perché
uno dei nostri problemi (degli italiani e, a quanto egli scrive,
anche dei greci, nostri “parenti” mediterranei) è proprio la
memoria “disinvolta” (che si fa corta a piacere e a comando, e
quando – in rari casi – si spinge più in là risulta
puntigliosamente/faziosamente selettiva...).
Osserva
tra l'altro l'economista:
«Durante questi anni di “crescita” e
consumismo, molti di noi speravano che le nostre società trovassero
in se stesse la capacità di ritrovare l’equilibrio perduto; di
conciliare lo stomaco pieno con la preferenza per un cinema dignitoso
al posto del volgare stile di vita proposto dagli show televisivi».
Io mi
confesso meno ottimista di lui, quanto a questo, tenuto conto,
almeno, di quanto ho osservato negli ultimi quindici o vent'anni. Ma
può darsi che la possibilità di ritrovare questo “equilibrio
perduto” ci sia; non ho motivi particolari per negarlo.
In
ogni caso, fa notare l'economista, proprio quando il “benessere”
sembrava ormai un traguardo acquisito e intangibile, la Crisi è
arrivata e in Paesi come la Grecia si è tornati alla situazione del
dopoguerra. Ma sembra – osserva tristemente – che non riusciamo
mai davvero a imparare dagli errori del passato (anche qui, è
questione di “smemoratezza” costitutiva...). Come poterono gli
statunitensi – si chiede –, all'epoca del Presidente Hoover,
pensare di affrontare le conseguenze della crisi del 1929 attraverso
il sistema «di ridurre rapidamente la spesa pubblica e di tagliare i
salari»? E come possiamo di nuovo pensarlo noi, che
stiamo facendo lo stesso sbaglio?
E come
i generali statunitensi impegnati nella guerra del Vietnam,
consapevoli dell'inutilità di quella guerra e dell'impossibilità di
portarla avanti ma tuttavia incapaci di ammetterlo fino in fondo e
apertamente, così oggi – dice Varoufakis – i governanti e i
“tecnici” dei Paesi europei, pur intuendo ciò che dovrebbero
fare, esitano a farlo.
Difficile
trovare parole più chiare di queste per dirlo:
«Non
è che i membri delle nostre élite non riescano a vedere che
l’Europa è come un treno che sta deragliando al rallentatore, con
la Grecia che è la prima carrozza a lasciare i binari, seguita da
Irlanda e Portogallo, che a loro volta porteranno al deragliamento
delle successive carrozze più grandi: Spagna, Italia, Francia e,
infine, la stessa Germania. No, credo che, con l’occhio della loro
mente, possano vederlo, almeno così come i generali americani
potevano immaginare l’epilogo a Saigon, con gli elicotteri che
caricavano gli ultimi americani dal tetto dell’ambasciata degli
Stati Uniti. Ma, proprio come i generali americani, pensano sia
impossibile coordinare i loro punti di vista in una risposta politica
sensata. Nessuno di loro osa dirlo, quando entrano nelle sale in cui
vengono prese le decisioni importanti, perché temono di essere
accusati di essere dei deboli o confusi. Così, rimangono in silenzio
mentre l’Europa sta bruciando, sperando contro ogni speranza che il
fuoco si spegnerà da solo, pur sapendo, nel profondo del loro cuore,
che tutto questo non succederà.»
Non
vogliono forse abbandonare la strada già imboccata, non vogliono
abbandonare le loro abitudini di pensiero, le teorie alle quali sono
affezionati, anche se tutto sembra ormai dimostrare che quelle teorie
hanno in sé parecchi “bachi” (per usare un termine informatico)
che rendono il sistema sommamente instabile e ingestibile. Io userei
perfino una metafora ancora più semplice: come nella nota fiaba,
l'Imperatore è nudo, stranudo, ma nessuno, neppure davanti a una sì
lampante evidenza, osa ammetterlo – anche perché davanti a un
evento così clamoroso, che smentisce il senso del “mondo” da
loro conosciuto, i “dignitari di corte” della fiaba (che,
attualizzando la metafora, sono i nostri “esperti” e “decisori
politici”) preferiscono negare ciò che vedono e perciò ostinarsi
a dare un senso a ciò che non ne ha più, piuttosto che dover
accettare un “senso” nuovo e inedito che li spiazza e li mette
fuori gioco. Il che vuol dire che si tratta sì, certo, anche
di una questione di potere, ma non soltanto. (Anche perché
ostinarsi a mantenere una posizione del genere in simili condizioni
non è necessariamente una decisione “furba”, giacché può
ritorcersi contro gli “ostinati” e delegittimarne il potere).
In
alcuni passaggi la lettera dell'economista greco è un appello e
insieme un allarme, che faremmo bene ad ascoltare:
«Mentre
tergiversano, giocherellando mentre Atene, Roma, Madrid, Lisbona,
Dublino bruciano, le nostre società stanno affondando in una palude
nella quale la speranza svanisce, le prospettive sono annientate, la
vita è sminuita e in cui i soli vincitori sono i misantropi, i
‘nemici’, i cacciatori di capri espiatori in forma dell’alieno,
dell’Ebreo, del diverso, dell’altro. E quando le luci si spengono
– letteralmente – nel mio paese, con le famiglie che ’scelgono’
di farsi tagliare la fornitura di energia elettrica per poter mettere
del cibo in tavola, i teppisti ‘pattugliano’ le strade in cerca
del ‘nemico’.»
E'
noto infatti – la storia sembra confermarcelo di continuo – che
nei periodi di crisi, quando ogni prospettiva sembra compromessa e il
futuro sembra senza speranze, può aumentare l'influenza (e il
consenso elettorale) dei gruppi politici di ispirazione razzista,
xenofoba, ecc., che in maniera “spiccia”, e senza troppi
ragionamenti, trovano un qualche “nemico della società” o “della
nazione” al quale addossare tutte le colpe; è quello che potremmo
definire l'“effetto untore” (o “caccia alle streghe”, se si
preferisce): la paura indistinta delle persone, dei cittadini,
assediati e spaventati dalla crisi, viene convogliata verso un “capro
espiatorio”, additato a sproposito come il “turpe colpevole di
tutto”. E questo crea una potenziale massa di seguaci che si
serrano compatti e pronti a compiere linciaggi e “pogrom” –
come se già nei secoli e perfino in anni recenti non ne avessimo
visti e sofferti già troppi... (Oh, memoria corta, ancora una volta
tu!).
Trovo
poi veramente degne di nota queste parole:
«Vedo
che una geografia strana e bizzarra è al lavoro oggi in Europa:
l’Irlanda si preoccupa di sostenere che non è la Grecia, il
Portogallo strepita di non essere l’Irlanda, la Spagna grida che
non è il Portogallo e, naturalmente, l’Italia vuole credere di non
essere la Spagna. Dobbiamo, a mio avviso, mettere da parte questa
negazione idiota del nostro malessere comune. Certo, l’Italia non è
la Grecia, ma, nondimeno, la situazione in cui l’Italia si sta
sempre più trovando, mentre scrivo queste parole, non può essere
utilmente separata dalla situazione del mio paese. La nostra malattia
può aver provocato una febbre superiore di quella che avete voi, ma,
credetemi, il virus è lo stesso. La vostra febbre salirà domani al
punto in cui si trova la nostra oggi.»
A
che vale trattarci da appestati l'un l'altro? A chi giova questo
balletto (“no no, non guardate me... guardate lui... lui sì che
sta messo male”)? E' grottesco e non ci tira certamente fuori dai
guai, ma anzi ci impedisce di cercare strategie comuni, le sole che
forse potrebbero aiutarci.
Inoltre,
Varoufakis ci dice a chiare lettere che non stiamo assistendo (almeno
in Grecia) a una recessione,
ma a qualcosa di più preoccupante: si tratta infatti di una
depressione economica:
«[...] ciò
che sta succedendo in Grecia non è recessione! Qui, tutti stanno
collassando. Gli efficienti e gli inefficienti. I produttivi e gli
improduttivi. Le imprese potenzialmente redditizie e quelle in
perdita. So di fabbriche che esportano tutto quello che producono per
soddisfare i clienti, che hanno libri di ordini al completo, una
lunga storia di redditività; e, tuttavia, sono sull’orlo del
fallimento. Perché? Perché i loro fornitori esteri non accettano le
loro garanzie bancarie per fornire loro le materie prime necessarie,
visto che nessuno si fida più delle banche greche. Con i circuiti
del credito totalmente distrutti, questa Crisi sta affondando tutte
le navi, distruggendo ogni imbarcazione, assicurando che l’intera
società anneghi. E più tagliamo i salari, più aumentiamo le tasse,
più riduciamo benefici ai disoccupati, più profondo è il buco nel
quale ognuno sprofonda. Se qualcuno vuole spiegare il concetto di
circolo vizioso, oggi la Grecia è un caso di studio perfetto.»
Ecco,
e allora dove finiremo noi se ci ostiniamo nel “rigore” e
nell'austerità? La
domanda nasce spontanea... D'altra parte Varoufakis non si nasconde e
non nasconde le responsabilità degli economisti – e, mi permetto
di aggiungere, si potrebbe estendere il discorso agli “esperti” e
ai “tecnici” in generale, giacché forse non sono solo gli
economisti propriamente detti i responsabili delle decisioni
tecnico-politiche degli ultimi decenni...
Scrive
infatti l'economista greco, rivolgendosi idealmente al
collega-interlocutore italiano:
«Pensaci
bene: dietro ogni obbligazione CDO tossica, dietro ogni ingegneria
finanziaria letale, là si nascondeva qualche immacolato
rappresentante della nostra categoria. Dietro ogni politica economica
responsabile di una crescita con lo schema-Ponzi (che è una presa in
giro) prima della Crisi del 2008, si possono trovare alcuni
celebrati, alcuni rispettati economisti che hanno fornito la
copertura ‘ideologica’ per la politica da adottare. Dietro ogni
misura di austerità oggi, che soffoca le nostre società, ancora una
volta sta un nostro collega accademico, i cui modelli e le cui teorie
forniscono i poteri necessari con l’audacia che serve per
infliggere tali politiche ai nostri popoli. In breve, io e te siamo
colpevoli per quello che i nostri compagni greci e italiani stanno
soffrendo. Anche se non abbiamo condiviso questi particolari modelli
economici, non abbiamo fatto abbastanza per mettere il mondo in
allerta per la loro tossicità. Siamo, insomma, colpevoli.»
E
ancora:
«[...]
noi
abbiamo chiesto ai nostri studenti di avere fiducia nella capacità
delle istituzioni finanziarie di valutare correttamente il rischio,
noi ci siamo seduti a guardare i nostri studenti leggere libri di
testo che insegnavano loro la grande menzogna che i mercati si
autoregolano e che il meglio che lo stato possa fare è star fuori
dal mercato, lasciando che questo compia il suo miracolo. Sì, mio
caro collega, la nostra testa dovrebbe essere appesa per la vergogna.
Anche se individualmente ci siamo opposti alla tradizionale
’saggezza’ del nostro mercato.»
In
definitiva, la lettera di Varoufakis ci esorta a osservare la crisi
da un punto di vista differente da quello generalmente privilegiato
dal discorso politico predominante e dai mass-media
considerati “più autorevoli”. Differente per almeno due motivi
(a parte la macroscopica ed evidente differenza nell'interpretazione
che dà della crisi): innanzitutto, come già accennavo, non si
sofferma né si compiace a tratteggiare aspetti “tecnici” e
“algidi” che servono di solito a intimorire il “pubblico
profano” e a zittirlo davanti a “cotanto sapere”, ma lega
costantemente le scelte economiche ai loro effetti sociali
e culturali (e anche
alla loro radice ideologica,
mi spingo a dire), e anzi da tali effetti parte per giudicare le
politiche economiche (piuttosto che dall'astratto “benessere dei
mercati” o “dei consumatori”, i quali chissà perché, in
questi ragionamenti “da tecnici”, devono sempre dimenticare di
essere anche produttori...); inoltre, è differente sotto il profilo
dell'assunzione di responsabilità. Non dice che la crisi è nata
perché qualcuno – qualche anonima entità – da qualche parte ha
schiacciato il tasto sbagliato sulla tastiera di un pc; no: parla di
scelte consapevoli, e consapevolmente deleterie, suggerite e favorite
da chi, pur avendo il compito e le capacità di analizzare i problemi
e mettere in guardia i “decisori” politici, non l'ha fatto.
Consapevolmente non l'ha fatto, dice Varoufakis.
Per
questo ed altri motivi, dei quali ho succintamente parlato, la
lettera dell'economista greco è un documento utile per riflettere,
per confrontarsi, e per ritrovare le “ragioni” sociali delle
scelte economiche, che nossignori, non sono solo “tecniche” e
“roba da tecnici”, ma ci riguardano tutti/e.
Testo citato:
- Y. Varoufakis, Lettera a Giulio Ecchia ("Da economista a economista"), testo reperibile ai seguenti indirizzi Web (URL):
1-
http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2012/07/20/mentre-leuropa-brucia/
2 -
http://www.teatridivita.it/cuoredigrecia/?p=532
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