Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

giovedì 14 marzo 2013

No, il 100 per cento è fuori discussione per chiunque. Pensieri ad alta voce sulle speranze del (e nei confronti del) M5S


Pare che in un'intervista a Time Beppe Grillo abbia affermato, tra l'altro, che il suo Movimento punta al «100 per cento del Parlamento» [«We want 100% of Parliament, not 20% or 25% or 30%»] e che nel momento in cui il Movimento 5 Stelle «otterrà il 100% e i cittadini saranno diventati lo Stato, il Movimento non avrà più bisogno di esistere» [«When the movement gets to 100% when the citizens become the state, the movement will no longer need to exist»].

[Qui il testo originale e completo dell'intervista]

Tutto chiaro? Secondo me, non del tutto; o meglio, affermazioni come quelle riportate devono essere attentamente analizzate ed è necessario capire bene quali implicazioni potrebbero avere.



Il Movimento 5 Stelle, si sa, muove fin dalla sua nascita una critica radicale e senza sfumature al “sistema dei partiti”. Il suo slogan di maggiore impatto, in questa campagna elettorale, è stato: “Mandiamoli a casa” (sottinteso: i partiti, tutti i partiti).

Per potere con tutta libertà pretendere di “mandare a casa” il “vecchio sistema dei partiti” per intero il Movimento 5 Stelle deve evidentemente presentarsi come un “non-partito”; e infatti non vuole collocarsi, per sua precisa scelta, “né a destra né a sinistra”. Si presenta dunque come un soggetto (o un contenitore di idee politiche) completamente nuovo, inedito, come una novità che con la sua sola presenza “spiazza” le vecchie categorie e i vecchi ragionamenti politici.

In séguito ai risultati delle ultime elezioni, hanno fatto il loro ingresso in Parlamento molti giovani, e comunque molti “cittadini comuni”, che fino all'altro ieri erano appunto soltanto semplici cittadini estranei alla classica carriera politica col suo tipico cursus honorum. La democrazia deve essere anche questo: ricambio reale delle classi dirigenti e inclusione del “cittadino comune” nei processi decisionali. L'ingresso di tante “facce nuove” e “non vip” in Parlamento (nonostante le “controindicazioni” che può comportare sotto il profilo “tecnico”: inesperienza dei nuovi parlamentari, ecc.) è già un passo decisivo in questa direzione e lo si deve specialmente – come negarlo? – al Movimento 5 Stelle e ai consensi che ha saputo aggregare.

Mi auguro che si proceda ancora su questa strada e che anzi si migliori l'opera, attivando processi di partecipazione (a qualsiasi livello decisionale) sempre più efficaci, al tempo stesso affinando strumenti atti a ridurre gli inconvenienti che si determinano in questo tipo di procedure (ad es. il prolungarsi delle discussioni, la difficoltà di giungere a sintesi condivise quando la platea dei partecipanti è ampia e variegata, la necessità di operare talora selezioni “in entrata” [ragionevoli e non arbitrarie] per evitare il sovraccarico di domanda, la necessità di contemperare rappresentanza e partecipazione senza sminuire l'essenza e l'apporto dell'una o dell'altra, ecc.).

Si tratta però di un compito tutt'altro che facile e non si può pensare di risolverlo con formulette da salotto – ma su questo mi soffermo in séguito.

Accanto ai possibili meriti del Movimento 5 Stelle, per comprendere l'attuale situazione, bisogna anche considerare attentamente la crisi che negli ultimi anni hanno attraversato – a vario titolo e con diverse sfumature – i partiti “tradizionali”.

Ora, il sistema dei partiti era giunto – ben prima di queste elezioni – ad una crisi di non facile soluzione, sicché la necessità che i partiti finora conosciuti procedessero ad una (auto)riforma severa del loro modo di porsi nelle istituzioni e in relazione ai cittadini-elettori, si sarebbe potuta porre all'ordine del giorno già da tempo.

L'occasione non è stata colta, lo scollamento fra gruppi dirigenti ed elettori si è nel frattempo approfondito e la “transizione tecnocratica” montiana ha probabilmente aumentato (con la furba abdicazione momentanea dei due maggiori partiti e il loro “machiavellico” tentativo di evitare le responsabilità davanti al Paese) il malessere dei cittadini.

Si è avuta anche, in questi anni, la sensazione (forse esagerata per alcuni aspetti ma comunque non campata in aria) che i partiti finora conosciuti abbiano puntato, in una situazione economica oggettivamente difficile, innanzitutto a difendere il proprio recinto, incamerando “legalmente” a proprio beneficio risorse pubbliche – e non disdegnando, in alcuni casi (grazie alla sciagurata coincidenza [o quasi-coincidenza] delle figure istituzionali del controllore e del controllato), di “approfittare generosamente” di rimborsi spese che in ogni altra organizzazione, pubblica o privata, sarebbero stati ritenuti scandalosi (per non parlare poi degli eclatanti casi di corruzione in senso proprio).

Quasi nessuno ha compreso, nonostante i numerosi e documentati dossier giornalistici, che la spesa eccessiva, incontrollata e incontrollabile (tradottasi talvolta in generosissimi emolumenti, trattamenti previdenziali privilegiati, ecc.), tale da configurare un vero e proprio “delirio di onnipotenza” da ancien régime, da parte di taluni influenti gruppi dirigenti politici, avrebbe portato a una vera e propria “epidemia di sfiducia” dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti politici e persino delle istituzioni.

In sintesi, le “ricette di Monti” e il trimalcionismo sfacciato e cinico di una frangia (che certo non rappresenta il “totale”, ma che essendo trasversale agli schieramenti li scredita in maniera “bipartisan”) dei ceti politici italiani hanno, nella loro fatale combinazione di questi ultimi mesi, contribuito ad accrescere l'appeal dello slogan grillino “Mandiamoli a casa!”. Ma di certo le cause profonde sono meno contingenti e vengono da lontano.

Già solo considerando le questioni qui riassunte, si comprende che l'esistente non è difendibile per ciò che è, ma solo per ciò che dovrebbe essere: ovvero, l'attuale sistema dei partiti deve riconquistare la propria legittimazione riformandosi nel profondo e tornando a incarnare lo strumento principe del pluralismo politico, e non lasciarsi più andare, invece, alla tentazione di essere il versante politico-istituzionale del peggiore "corporativismo" (neofeudale) italiano.

C'è chi punta a sottolineare le differenze fra i partiti, anche rispetto a tali questioni; ma non si può negare che, accanto alle differenze che pure vi sono, esistono comunque difetti che sono comuni all'intero sistema dei partiti: intorno a tale tema si è avuto già modo di riflettere, su questo blog.

Detto ciò, torniamo alle dichiarazioni di Grillo.
Mi son detto – e qualcuno è d'accordo con me – che probabilmente non sono da prendere alla lettera: con quelle parole forse il fondatore del Movimento 5 Stelle intende auspicare che tutto il panorama politico si rimodelli sull'esempio del M5S, che quindi assumerebbe il ruolo di “paradigma del cambiamento”, col compito di mutare in maniera permanente la forma della politica in Italia.
Il Movimento 5 Stelle dovrebbe diventare insomma, se l'interpretazione è corretta, il catalizzatore e il punto di riferimento di un cambiamento epocale, o il “modello di politica” per antonomasia (trasparente, partecipata, non verticistica, ecc.), ma non certamente una sorta di “partito unico”.

Può darsi che le vere intenzioni di Grillo siano quelle appena esposte, e in tal caso contengono promesse interessanti, anche se non facili da realizzare. Ma resta il fatto che certe affermazioni suscitano una serie di interrogativi, anche perché il senso letterale delle frasi citate all'inizio è tutt'altro. E non si può tranquillamente ignorare, giacché un politico – in virtù della propria responsabilità pubblica – non può evitare di farsi carico del significato letterale delle proprie affermazioni o delle implicazioni che queste hanno.

Torniamo quindi a quelle affermazioni.

Perché mai un partito, o un non-partito o Movimento, dovrebbe puntare al 100% dei consensi elettorali (e di conseguenza al 100% dei seggi in Parlamento)? Non bastano forse il 51% o il 60% per governare? Perché pretendere il 100%?
Probabilmente nei sogni di molti partiti c'è il traguardo del consenso universale; nessuno però lo dichiara, poiché tutti sanno che in democrazia è altamente improbabile.

Consenso universale è sinonimo di mancanza assoluta di dissenso, e dunque di opposizione. Può una moltitudine di milioni di elettori convergere spontaneamente e in assenza di coercizioni o di pesanti pressioni, come “un sol uomo”, su un unico partito (o “non-partito”...) e raggiungere quindi un accordo universale che elimini le differenze di opinione, di orientamenti e di idee?
E in virtù di cosa?

Forse secondo Grillo – se è buona questa lettura delle sue parole – questo traguardo è possibile se tutti gli elettori arrivano a rendersi conto che il M5S è l'unico “alieno” nel sistema dei partiti italiani e quindi l'unico che può spazzare via gli errori e le contraddizioni di questi ultimi; d'altra parte, se tutti i partiti sono “cattivi e perfidi”, solo un non-partito può legittimamente prenderne il posto, nelle istituzioni.

Seguendo questo ragionamento, però, si può arrivare a ritenere che gli elettori che si ostinano a non votare per il M5S siano “complici del sistema” e pertanto esecrabili.

Votare per un determinato partito è tuttavia in realtà un atto carico di molteplici significati, che non si può ridurre ad un'unica dimensione.

Anche ammesso che il Movimento 5 Stelle sia il miglior movimento politico che sia mai comparso sulla faccia della Terra, non per questo chi vota per un partito diverso dal M5S può essere ipso facto (cioè senza neppure indagare nel concreto casi specifici, motivazioni specifiche di singoli concreti elettori) ritenuto “indegno”, sconsiderato, miope, disonesto, corrotto, ecc.

Soltanto se il Movimento 5 Stelle riuscisse a dimostrare – come mai nessuna dottrina, religiosa o politica, è riuscita a fare in maniera convincente e incontrovertibile – di rappresentare, in maniera esclusiva e monopolistica, nei suoi princìpi ispiratori, nel suo programma d'azione e nella sua pratica, la Verità assoluta e la Giustizia pura, potrebbe pretendere di giudicare con disprezzo e commiserazione e perfino di “scomunicare” chiunque non pieghi le ginocchia davanti al Movimento, accettandone incondizionatamente la supremazia.

Certo, chi è convinto di detenere l'unica verità possibile, arriva per forza di cose a negare la legittimità di posizioni e opinioni differenti e dunque del dissenso, e tenderà a screditare tutti coloro che non si riconoscono in quella presunta “verità assoluta”, come persone in malafede, corrotte, conniventi, ecc. Bisognerebbe sempre evitare di imboccare questa strada, che porta molto lontano dalla ragionevolezza e anche dalla razionalità dei giudizi.

E – riprendendo l'ipotesi di prima – anche ammesso che il Movimento 5 Stelle sia il miglior movimento politico che sia mai comparso sulla faccia della Terra, le sue ragioni non possono essere le “uniche vere” o le “uniche giuste”. Questo vale per qualsiasi aggregazione umana, che si chiami “partito”, “movimento”, “associazione”, “gruppo”, ecc.: non è questione di denominazioni, qui...
Non nego affatto che il M5S abbia buone argomentazioni e/o che molte delle sue critiche al sistema dei partiti siano fondate. Ma questo non vuol dire – in senso assoluto, aprioristico e definitivo – che nessun altro all'infuori del M5S abbia buone ragioni da difendere.

Alcune domande a questo punto si impongono.

Volere il 100% dei consensi significa forse disprezzare il pluralismo? Ha una qualche validità un concetto di democrazia che ritenga fisiologico l'unanimismo e invece consideri sospetti a priori (e anzi da estirpare come patologici) il pluralismo e il dissenso organizzati? E se sì, in cosa questo genere di democrazia differisce dal totalitarismo e dall'autoritarismo?

Immagino un paio di possibili risposte a quest'ultima domanda, in particolare: quello che ha ipotizzato e/o auspicato Grillo è un consenso unanime spontaneamente manifestato dagli elettori nelle urne, senza alcuna forma di coercizione; inoltre, il Movimento 5 Stelle non è un partito e non ha ideologie da imporre, ma soltanto alcune misure che nessuna “persona onesta e di buona volontà” può sensatamente rifiutare.

Si può controreplicare a queste risposte, facendo notare ad es. che l'unanimismo “monolitico” (comunque impossibile da riscontrare “in natura” [per così dire], nelle aggregazioni di vaste dimensioni, come la grandi città o, a maggior ragione, gli Stati), in qualsiasi direzione si orienti, secondo tutte le accezioni riconosciute di democrazia e di pluralismo, segnala una grave patologia del sistema sociale e/o politico (che può essere l'eccesso di conformismo, l'assenza di offerte politiche alternative, la “posizione eccessivamente dominante” di un partito o di un leader nella società, ecc.) e non ne è quindi, in alcun modo, la “cura”. Inoltre, dire che il M5S “non è un partito” non muta la sostanza della questione (forse che un “movimento” o una potente associazione non hanno scopi ideali e persino politici da perseguire? e non possono anch'essi assumere atteggiamenti prevaricatori e intolleranti?), e affermare “l'autoevidenza” del valore delle proposte politiche del Movimento sposta il discorso addirittura sul piano del fideismo collocando quelle proposte al di là di ogni possibile critica.

A scanso di equivoci, è bene precisare che le osservazioni che qui vado facendo non hanno necessariamente attinenza coi partiti oggi esistenti. Voglio dire: non ho alcuna intenzione né alcun interesse a perorare la causa del PD, del PDL o di chicchessia. Il ragionamento deve andare al di là delle situazione contingente, per poter essere compreso nel suo vero senso. E allora, per capirci meglio, facciamo l'ipotesi che compaiano sulla scena politica nuovi partiti o raggruppamenti politici, che condividano con il M5S alcuni “valori” di fondo – come la non candidabilità dei condannati, il divieto per i parlamentari di ricandidarsi alle elezioni dopo uno o due mandati o la riduzione di taluni privilegi – ma non il resto del programma politico.
O – altra ipotesi – poniamo che sorgano uno o più partiti che propongano un modo di “miscelare” democrazia diretta e rappresentativa che, pur somigliante per ispirazione a quello del M5S, sia però differente (anche in maniera profonda) sotto il profilo delle modalità operative.

In questi due casi, il Movimento 5 Stelle tratterebbe questi nuovi partiti come sospetti o “appestati”, esattamente come i “vecchi”, sol perché non perfettamente in linea con il programma del M5S medesimo? Li tratterebbe come “concorrenti sleali” o come “illegittimi usurpatori” della scena politica nuova?

E se una parte del movimento per i beni comuni e per l'acqua pubblica – per fare l'esempio eclatante di un movimento realmente “partecipato” – non riconoscendosi legittimamente nella rappresentanza che il movimento di Grillo dà a quelle istanze decidesse di darsi una rappresentanza politica distinta rispetto a quella offerta dal M5S, tale decisione sarebbe da contrastare alla stregua delle “vecchie trovate” del sistema dei partiti da “mandare a casa”? Non hanno altre parti del movimento lo stesso diritto all'autodeterminazione politica del quale si è avvalso il M5S per organizzarsi e chiedere il consenso degli elettori? Chi e in virtù di cosa può negare tale diritto?

Credo che le aspirazioni del Movimento 5 Stelle siano ben sintetizzate da Nadia Urbinati nella formula: democrazia rappresentativa diretta. Questo nel dettaglio il ragionamento della studiosa [e il link al suo articolo è qui]:

«Il M5S non esalta la democrazia diretta. Ha intenzione di inaugurare quel che solo un ossimoro può rendere: una democrazia rappresentativa diretta, cioè senza l'intermediazione del partito politico, e con la promessa di mantenere un filo diretto via Internet tra i cittadini e i rappresentanti. Una democrazia rappresentativa sempre in rete. Questa è la novità più dirompentee complicata da gestire. Il M5S ha l' ambizione di dimostrare che un dispositivo tecnico come il web riuscirà a scalzare l' intermediazione partitica, ce lo dicono Grillo e Dario Fo, lo si legge sul sito del movimento. Con Internet, i grillini vorrebbero tenere in mano il Parlamento, se così si può dire, ecco perché si ostinano a chiamare gli eletti "cittadini" mettendo in secondo piano il fatto, centrale, che sono invece dei "rappresentanti". Come tradurre questo proposito in realtà?»
[N. Urbinati, Dalla piazza al Parlamento]

Democrazia rappresentativa diretta”: suona bene, certo, ma chi conosce almeno un po' la storia della democrazia, la filosofia politica, il diritto costituzionale e la scienza politica (per tacere di altre discipline) non può ignorare a cuor leggero che quella formula equivale – come la stessa studiosa comprende e fa intendere – alla quadratura del cerchio.

Sembra talvolta che i grillini si propongano al Paese come coloro che – a quanto pare ignorando o perlomeno fortemente sottovalutando le enormi difficoltà che nel corso degli ultimi secoli hanno incontrato pensatori politici e giuristi nel cercare di conciliare la rappresentanza con la democrazia diretta – sono in grado di “quadrare il cerchio”, senza nemmeno troppa fatica. La “spada nella roccia” era lì da secoli, nessuno, per quanti sforzi facesse, riusciva a estrarla, poi un bel giorno è arrivato Grillo e in quattro e quattr'otto l'ha tirata fuori dalla sua “prigione di pietra”, mostrandola trionfante alle genti.

Le favole sono belle ed entusiasmanti, me ne rendo conto... e io non voglio turbarle più di tanto.

Come faranno, comunque, i rappresentanti parlamentari del Movimento 5 Stelle a conciliare rappresentanza e democrazia diretta? Se interpreto bene il pensiero di Grillo e del suo movimento, quando sorgeranno contraddizioni o difficoltà, i parlamentari “grillini” (e il movimento in genere) le supereranno grazie alla buona volontà, alla trasparenza, all'onestà di intenti e magari anche grazie al buon senso.

Forse per questo sembrano ritenere che la rinuncia al principio conosciuto come “divieto del mandato imperativo” per i parlamentari, sancito dall'art. 67 della Costituzione (e del resto da tutte le Costituzioni “liberaldemocratiche”), sia priva di controindicazioni. Basta essere benintenzionati, insomma, e ogni cosa va a posto da sé.

Un altro passaggio dell'intervista citata all'inizio aiuta a capire un altro caposaldo della visione del mondo “grillina”. Dice Grillo: «L’arte del compromesso, che è stata l’arte della politica, non è più valida. Il compromesso deve essere tra cittadini» e non tra partiti [«The art of the compromise, which was the art of politics, is no longer valid. Compromise needs to be between citizens, not between Republicans and Democrats»].

Dunque, come ripete con varie sfumature, i partiti si devono fare da parte per lasciare spazio interamente ai cittadini.

La dialettica politica non deve avere più per protagonisti i partiti, bensì i singoli cittadini.

Il Movimento 5 Stelle combatte quindi la mediazione politica come se fosse il “male assoluto”.

Questa concezione interpreta i partiti politici esclusivamente come “gabbie” che hanno imposto il loro potere ai cittadini, offrendo a questi ultimi catene in cambio del loro servizio di “mediazione” fra opposti interessi e visioni del mondo.

Ma l'organizzazione degli interessi comuni, che prende forma anche attraverso i partiti politici (e, in altri àmbiti, attraverso i sindacati, non a caso altro bersaglio della polemica grillina), non è un inutile orpello o un arnese ingombrante del quale sbarazzarsi: risponde invece a un'esigenza reale della società. Certo, come anch'io ho detto qui e altrove, non è necessariamente questo sistema dei partiti a rappresentare lo “stato fisiologico”; ma da qui a sottovalutare o a demonizzare acriticamente la funzione della mediazione politica in quanto tale ed in ogni sua forma ce ne corre.

Perché mai ai cittadini deve essere impedito, con libero atto della loro volontà, di organizzarsi in partiti? Non è forse vero che una persona da sola ha meno chances di incidere sulla realtà e di farsi ascoltare, rispetto a un insieme di persone che si sostengono a vicenda e sostengono solidali gli stessi princìpi e le stesse battaglie ideali? E non è forse vero che l'individuo, lasciato a se stesso, nel suo solipsismo, senza la possibilità di confrontarsi con chi condivide almeno in parte le sue idee, è meno capace di (auto)critica e ha meno possibilità di allargare il proprio orizzonte mentale, ostinandosi magari in errori dovuti semplicemente all'isolamento?
Devono aumentare i controlli di quei cittadini sui partiti, rispetto a quanto avveniva in passato, e deve essere più “vera” la trasparenza dei partiti stessi, questo è chiaro; ma ciò non vuol dire che i partiti non hanno una funzione da svolgere ancora oggi.

Si possono a questo punto citare alcune riflessioni di Dino Cofrancesco che, pur partendo da un punto di vista ideale profondamente diverso dal mio, a mio avviso mette a fuoco in maniera incisiva il ruolo dei partiti e della mediazione da essi svolta nelle democrazie.

Scrive tra l'altro il prof. Cofrancesco [qui o qui il link all'articolo]:

«I cittadini vogliono le cose più diverse (e talora incompatibili) e il compito dei partiti è quello di fissare la road map: alcuni obiettivi vengono raggiunti subito, altri rimandati, altri lasciati cadere. Se il nostro partito ci ‘accontenta’ su un piano ma non ci convince su un altro, ci si rassegna pensando che, in un momento successivo, potrebbe cambiare linea. Al fondo, resta la fiducia in una formazione politica che condivide la nostra ‘political culture’ e che è in grado di organizzare e far valere le esigenze di quanti sentono e la pensano come noi.»
[D. Cofrancesco, Senza partiti non c'è democrazia]

La mediazione politica, finora svolta (probabilmente male negli ultimi anni, e perciò ci troviamo ora a questo punto) dai partiti, ha anche una funzione pedagogica, che si può suddividere in vari aspetti: uno di essi si compendia nel compito di ricordarci che le esigenze della collettività non possono ridursi a quelle che noi, come singole persone, dal nostro osservatorio privatissimo (e inevitabilmente condizionato dalle nostre personali priorità e preferenze), individuiamo.
Non possiamo insomma ragionevolmente aspettarci che le priorità politiche di un'intera nazione (o anche di una città) possano o debbano sempre e comunque essere condizionate e determinate prevalentemente o addirittura esclusivamente dalle nostre personali aspettative e dalla nostra personale “agenda”.
Ma chi deve tener conto degli interessi pubblici? Non può farlo il singolo individuo come tale, neppur con tutta la buona volontà.

Il partito in un certo senso, sulla base di un mandato fiduciario, ristruttura le aspettative e le “agende” dei singoli – e deve quindi ascoltarli, tenerli in considerazione, ecc. – per giungere a una piattaforma di valori e priorità ragionevole e condivisibile (perlomeno da parte dei suoi simpatizzanti ed elettori), che però fatalmente non può accontentare al cento per cento ciascun singolo. Si tratta di un compromesso, in questo caso non fra partiti (il genere di compromesso demonizzato da Grillo), ma fra partiti e cittadini: siamo sicuri che anche di questo tipo di compromesso possiamo/dobbiamo fare a meno in modo assoluto?

Certo, perché questo meccanismo si attivi e funzioni, è necessario che esista mediamente fiducia nella capacità dei partiti – quella che adesso è venuta meno e che forse non sarà facile ripristinare. Con cosa la sostituiamo? Con l'assenza assoluta di mediazioni?

Siccome non credo che di questa funzione di mediazione si possa in realtà fare a meno, non vorrei che, una volta tolti di mezzo i partiti, il loro posto venisse preso da altri soggetti che, come “avvoltoi” travestiti da premurose colombe, magari presentandosi come “rappresentanti di istanze della società civile” o “fautori del buon governo” o come “équipe di esperti”, cominciassero a imporre, per carità “solo per il bene del Paese” e “dalla parte della società civile”, le loro soluzioni ai problemi, le loro ricette, i loro “valori”. Mi riferisco a soggetti che dispongono di denaro, di mezzi, di mass media, del potere di influenza, eccetera, tali da orientare le opinioni di molte persone senza aver l'aria di farlo: pensate che non esistano “soggetti” simili tra noi, quaggiù, nella “società civile”?

I partiti insomma occupano un posto strategico nella nicchia “ecologica” della politica: se li si costringe a uscire di scena, quella nicchia non rimarrà vuota, statene certi; sarà invece occupata da chi possiede i mezzi (economici e di potere) e la capacità per farlo. E – potrei scommetterci – si tratterebbe di soggetti privati, che in quanto tali non avrebbero il dovere di rispondere delle loro decisioni e delle loro azioni (nonché della provenienza e dell'utilizzo delle loro risorse) davanti ai cittadini-elettori. La funzione di mediazione politica sarebbe in definitiva assunta in maniera sotterranea da soggetti “opachi”, da un lato capaci di orchestrare campagne di opinione (ricorrendo magari anche a mezzi “sporchi”, come il dossieraggio e la calunnia), di decretare l'ostracismo contro questo o quel personaggio, contro questa o quella proposta di legge, e anche di offrire finanziamenti per questa o quella iniziativa politica, e dall'altro non responsabili (in quanto “non-politici”) dei loro atti davanti all'opinione pubblica e ai cittadini.

Dite che soggetti simili non fanno politica quanto e talvolta più dei partiti? E che non hanno lo stesso potere dei partiti, se non talvolta anche maggiore?
In mancanza di altre forme di orientamento collettivo, a chi – se non a quei soggetti “opachi” e irresponsabili – si rivolgerebbero gli “individui” per cercare di “capirci qualcosa” nei problemi della società? E per distribuire torti e ragioni e individuare soluzioni?

E questo è in realtà solo un pallido esempio di ciò che potrebbe succedere.
Trattandosi però di un'ipotesi o, se vogliamo, di una “proiezione futura” (basata tuttavia su dati reali e storici), metto in conto anche di potermi sbagliare su questo punto.

Qualche volenteroso ottimista può pensare che invece, scomparsi dalla scena i partiti, la mediazione fra le singole persone e la collettività possa essere fatta in prima persona dai cittadini, ad esempio in assemblee apposite. Forse è questo che hanno in mente Grillo e i militanti del M5S.

Certamente tentativi del genere si possono fare – e del resto non mi sognerei di scoraggiarli, anche perché li auspico da tempo. Temo però che da sola questa soluzione dell'“autogestione permanente” non possa reggersi.

E qui torno a citare Cofrancesco:

«Una democrazia senza partiti, che, in nome della partecipazione ‘totalitaria’, elimini de facto la rappresentanza, significa tout court, il caos e l’anomia eretti a sistema: saremo continuamente chiamati a scegliere su problemi specifici (piccoli o grandi che siano) e su ciascuno di essi ci divideremo trasversalmente, rispetto agli schieramenti attuali, in una sorta di guerra di tutti contro tutti intesa a destabilizzare le istituzioni e ad alimentare climi diffusi di risentimento.»
[D. Cofrancesco, Senza partiti non c'è democrazia]

Non è uno scenario da fantascienza. Chi ha avuto modo di assistere ai dibattiti che si accendono nei movimenti “assembleari” sa bene che questo rischio esiste. Dibattito dopo dibattito, le divisioni si approfondiscono, i personalismi si accentuano e nessuno vuol sentirsi da meno degli altri, sicché anche chi non ha nulla di fondamentale da dire trova una virgola alla quale appigliarsi e in nome della quale accapigliarsi con altri ostinati come lui/lei.
(La cosa si risolve soltanto con l'intervento di mediatori autorevoli, che peraltro si sentono di solito dai più intransigenti rivolgere l'accusa di voler “pilotare” lo spontaneismo dell'assemblea per interessi di bottega – e talora l'accusa è fondata... Ma la realtà è che senza interventi “semplificatori” del “caos atomistico assembleare”, le assemblee stesse si votano da sole allo scioglimento per incapacità di decidere alcunché.)

Al limite, se nessuno/a vuol cedere di un passo, perché in ogni “cedimento” al compromesso “con gli altri” vede una diminuzione del proprio potere di decidere sovranamente per sé, nella ideale assemblea (più o meno permanente, più o meno virtuale) che dovrebbe fungere da camera di mediazione fra i cittadini “autogestita” le mozioni si moltiplicano, giacché nessuno/a si abbassa a votare per mozioni che non lo/a soddisfino al cento per cento, in un clima di sospetto generale e di conflitto “atomizzato” ed endemico.

Ma anche ammesso che non si arrivi a questo estremo (purtroppo tutt'altro che improbabile, specialmente in momenti di insoddisfazione generale), sorgono comunque altri problemi, ad esempio la regola da adottare per prendere le decisioni. La regola di maggioranza nella pratica della democrazia partecipativa non di rado viene criticata in quanto “prevaricatrice” e le si preferisce perciò la regola del consenso.
Sarebbe una regola splendida, perfetta, se non fosse per un dettaglio: come si raggiunge e si misura in maniera chiara e incontrovertibile il consenso? Lo si ottiene facendo una sintesi di tutte le mozioni tale da accontentare potenzialmente (almeno un po') tutti/e senza scontentare (troppo) nessuno/a? In teoria sì; ma tra il dire e il fare... E' facile in pratica che qualcuno/a rimanga scontento/a della “sintesi” così ottenuta e accusi coloro che gestiscono l'assemblea di “manipolazioni”.

Il rapporto di fiducia anche in questo caso (come nel sistema che vede la mediazione affidata ai partiti) svolge un ruolo insostituibile. Qui si instaura fra i partecipanti all'assemblea e coloro che vengono dall'assemblea stessa incaricati – anche solo in via temporanea – di gestire il dibattito e costruire sulla base di questo la fatidica “sintesi condivisa”, nella e sulla quale si dovrebbe esprimere il consenso dell'assemblea e quindi la sua deliberazione finale.

I “mediatori temporanei” (o facilitatori o moderatori, ecc.) devono ovviamente essere innanzitutto in buona fede (e non essere interessati quindi a “pilotare” secondo i propri fini i dibattiti dell'assemblea) e inoltre devono avere la capacità (non comune) di individuare i punti di sintesi nella marea sterminata di proposte e di punti di vista che in un'assemblea veramente “libera” si presentano sulla scena – il tutto senza urtare le suscettibilità dei singoli partecipanti all'assemblea (e quindi i buoni “mediatori” sono anche buoni diplomatici o comunque persone dotate di tatto e sensibilità...).

Qualcuno può proporre: “Beh, se il problema sono i 'mediatori', facciamone a meno e lasciamo l'assemblea libera di discutere e deliberare all'infinito senza nessun 'moderatore'”.
Che dire? Che qualcuno ci provi, se ci crede davvero... a quel punto dubito però che l'assemblea riesca ad arrivare a una qualche deliberazione, se non per sfinimento fisico (ma quando e con quali risultati?)...

Un altro problema, nelle discussioni assembleari “aperte e partecipate” – del quale nessuno di solito se la sente di parlare se non in via “ufficiosa” – è costituito dal livello “qualitativo” degli interventi.
Non si tratta di esprimere giudizi sul livello di preparazione e di competenza dei partecipanti né – quindi – di stabilire forme di censura; ciò a cui mi riferisco qui sono i casi di manifesta incapacità del partecipante o di reiterata e irrimediabile incongruenza dei suoi interventi rispetto ai temi in discussione. Potremmo definire questo problema con espressione graziosa come il problema dell'“eccentrico in assemblea” (laddove per eccentrico si può intendere una vasta gamma di tipologie, che spaziano – a mero titolo di esempio – dal “semplice” eccentrico dotato di strambo eloquio [e di ancor più stramba idea della logica] al vero e proprio mitomane, passando per il “paranoico lucido”).

Il pubblico dibattito è infatti anche una grande occasione di sfoggio narcisistico e determinati soggetti non riescono a resistere a tale richiamo; se il loro numero e il loro peso in assemblea (anche per via delle regole di discussione e di partecipazione che eventualmente l'assemblea stessa si è data) non è indifferente, la discussione può anche risentirne in una certa misura e la stessa “autorevolezza” dell'assemblea rischia conseguentemente di affievolirsi.
(Che succede infatti se, in nome del “rispetto di tutte le opinioni”, il veto o l'ostruzionismo a oltranza di un eccentrico – nella suddetta accezione – impediscono all'assemblea di deliberare?).

La soluzione di questo problema – laddove si opti per una democrazia diretta “senza barriere e senza mediazioni” – non è tanto semplice: chi si assume l'onere e la responsabilità di escludere un presunto eccentrico dall'assemblea, col rischio di sentirsi accusare di adottare “pratiche discriminatorie”?

Come si vede, anche limitandosi a considerare poche questioni essenziali, l'espansione dello spazio partecipativo (e dunque della democrazia diretta) non si può affidare solo alla “buona volontà” e all'“onestà di intenti”, perché è un percorso da costruire con competenza e sapienza, e soprattutto è difficile immaginare di poter risolvere il problema della mediazione semplicemente sopprimendola. Rischia di essere un'illusione equivalente alla fede nell'esistenza del Paese dei Balocchi.

La mediazione risiede oggi essenzialmente nel luogo istituzionale della rappresentanza, il che vuol dire che lo spazio della partecipazione e della democrazia diretta si può ampliare, e anche parecchio, ma – se la mediazione, come si è detto, non è un “accidente passeggero” del quale ci si può sbarazzare senza inconvenienti – a patto di non farne l'unico polo possibile della dialettica politica, che in sé tutto riassume e assorbe.

Il rinnovo della rappresentanza che oggi il M5S ha realizzato è un traguardo importante e promettente anche dal punto di vista simbolico. Nonostante le perplessità (serie) sopra espresse, quindi, anche perché non sono un nemico del rinnovamento (men che mai un conservatore), specie se questo è volto a rendere migliore e più "inclusiva" la democrazia, concludo dicendo che si può ragionevolmente esprimere anche qualche speranza, la cui fondatezza potrà essere giudicata soltanto nel corso dei prossimi mesi (anni?).



Articoli citati nel testo:


- Italy’s Beppe Grillo: Meet the Rogue Comedian Turned Kingmaker, intervista di S. Faris a Beppe Grillo, su “Time” del 7/3/2013, http://world.time.com/2013/03/07/italys-beppe-grillo-meet-the-rogue-comedian-turned-kingmaker/

- D. Cofrancesco, Senza partiti non c'è democrazia, su “Il Giornale” del 10/3/2013 e sul sito “Il Legno Storto”, http://www.ilgiornale.it/news/cultura/senza-partiti-non-c-democrazia-894177.html
http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=36368&Itemid=26

- N. Urbinati, Dalla piazza al Parlamento, su “La Repubblica” del 5/3/2013, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/03/05/dalla-piazza-al-parlamento.html?ref=search

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