Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

mercoledì 14 agosto 2013

Per il quarantennale di un disco senza rughe: "Sulle corde di Aries" (LP di Battiato)

Quando si parla di musica, di letteratura o di arte – si sa – i “valori oggettivi” si intrecciano in maniera talora inestricabile con i gusti personali; dunque quando ci si avventura ad affermare: “Il musicista X è un genio assoluto, incommensurabile”, si rischia di sentirsi rispondere: “Sarà un genio per te, io non lo sopporto nemmeno in fotografia e la sua musica mi dà l'allergia”.



Certo, forse bisognerebbe evitare le affermazioni iperboliche – ed evitare quindi di distribuire la patente di “genio” con leggerezza, sulla spinta (talora fallace) dei propri personali entusiasmi – per accontentarsi di dichiarazioni più sobrie, misurate, argomentate. Ogni campo tuttavia ha il proprio specifico bagaglio di saperi, competenze, ecc., e la musica non fa eccezione: dunque se non si è “esperti del settore”, ma semplici “amatori” (e/o ascoltatori un po' competenti), come me, il valore oggettivo di un'opera o di un autore va “maneggiato con cura” e toccato nell'argomentare con molta circospezione e delicatezza. E' preferibile, in questi casi, partire con franchezza dalle proprie predilezioni personali, per poi tentare di capire se tali predilezioni si coniugano in maniera accettabile con un'analisi obiettiva e se il valore soggettivamente attribuito può coincidere almeno parzialmente con la “grandezza oggettiva” dell'opera o dell'autore analizzati.

E dopo simile premessa, sono qui a parlare di un disco che ho reiteratamente ascoltato nel corso degli anni con immutato diletto. Il fascino che su me ha sempre esercitato mi ha spinto a chiedermi – come spesso càpita, al cospetto di ciò che ci piace particolarmente – quale “segreto” nasconda, ovvero quale sia la “formula” che ha potuto produrre un così felice risultato.

Tutti i lettori sapranno di certo che a una domanda così non può mai seguire una risposta soddisfacente; ma sapranno altrettanto bene che è una delle molle che ci istiga a “saperne di più” delle cose che catturano la nostra fantasia.

Il disco del quale parlo è “Sulle corde di Aries”, di Franco Battiato, e risale al 1973, dunque esattamente a quarant'anni fa – è stata anche questa circostanza (la “cifra tonda” del suo “anniversario”) a suggerirmi di parlarne.

Quattro decenni fa il panorama dell'Italia era un altro, non solo dal punto di vista sociale e politico, ma anche – ciò che qui più ci interessa – dal punto di vista musicale. Quelli erano anni, infatti, nei quali stavamo uscendo gradualmente da un certo provincialismo: se altrove le barriere tra “musica colta” e musica “del volgo” (pop, rock, canzonette...) erano cadute già con un certo fragore e scalpore (negli Usa già con Gershwin, in qualche modo, e poi in maniera più dirompente con Zappa; nel Regno Unito con il progressive rock; ecc.: e solo per citare al volo qualche esempio), in Italia chi come Battiato tentava analogamente di farle saltare, per consegnare davvero (per dirla con L. Ferré) la musica alle strade, rimaneva ai margini del “mercato”, considerato, più che una rara avis (qual era in effetti), un enigma umano ai limiti della mistificazione.

Si parla di “musica sperimentale”, quando ci si riferisce al genere di musica che Battiato negli anni tra il 1972 e il 1979 portava nei concerti e incideva su disco; ma di per sé è un'etichetta vaga e imprecisa: indica infatti non già un genere musicale, bensì un'attitudine, un atteggiamento verso la “materia sonora”. In questo senso, possono essere considerate ugualmente “sperimentali” due composizioni diversissime tra loro, come il Pierrot Lunaire di Schönberg, ad es. in virtù dell'ardita innovazione che a suo tempo apportò nell'uso della voce, e In C di Terry Riley, che a metà degli anni Sessanta del Novecento fece della ripetizione ipnotica di pattern sonori un nuovo linguaggio. Al di là della loro “aura” sperimentale, non hanno però niente in comune tra loro, e probabilmente qualche studioso potrebbe inorridire nel vederle accostate.
(E d'altronde, non era “sperimentale”, ai suoi tempi, anche l'accostamento tra linguaggio jazz e poema sinfonico, tentato con trepidazione da Gershwin in Rhapsody in Blue? E che dire di un album come “Switched-on Bach” di W. Carlos?).

Ciò che è vero comunque – per tornare al tema – è che Battiato in quel periodo ha attraversato, con grande curiosità e dedizione (e rinuncia alla fama facile), generi e stili diversi, cogliendone di volta in volta il limite e sforzandosi quindi di superarlo. Aveva verso la musica l'atteggiamento dello sperimentatore, ma le forme musicali e il materiale sonoro che maneggiava non si possono considerare “inclassificabili” in senso assoluto – almeno, se si tiene conto di ciò che musicalmente succedeva in quegli anni in Europa, o a Baltimora, o in California (tanto per dire).

Senza voler ricostruire minuziosamente il percorso artistico di Battiato (altri l'hanno già fatto con buoni risultati), si può notare comunque ad esempio che i suoi primi due album “sperimentali”, “Fetus” e “Pollution”, sono riconducibili alla musica elettronica e al rock d'avanguardia: per l'Italia si trattava di novità assolute, e anche nel panorama europeo quei dischi risultavano originali e innovatori, anche se carichi a volte (lo riconosce il loro stesso autore) di una certa ingenuità espressiva, figlia forse della volontà di svecchiarsi rapidamente, che accomunava una buona parte della società italiana. La provocazione per “stupire a tutti i costi” e suscitare scandalo era una tentazione alla quale a quell'epoca Battiato non riusciva a sottrarsi: lo testimoniano lo spettacolo “Battiato Pollution”, la copertina di “Fetus”, la “pubblicità del divano” [se ne fa cenno ad es. in A. La Posta 2010, pp. 16-17], certe interviste che il musicista rilasciava, ecc.

Nei concerti che Battiato iniziò a tenere nel 1973, la sperimentazione consisteva poi essenzialmente nella pratica dell'improvvisazione: grazie a questa, e al suo carattere di “rito liberatorio”, il musicista a poco a poco si emancipò dagli stilemi del rock. Ma quel genere di improvvisazione, che per semplicità (e con una certa dose di approssimazione) possiamo definire “non jazzistica”, era forse quasi sconosciuto a quell'epoca in Italia ma non altrove. La fusione fra happening e concerto, che La Monte Young, ad es., aveva sperimentato qualche anno prima negli Stati Uniti, precede di certo gli happening italiani di Battiato del '73-'76. Ma che ne sapeva il giovane “medio” italiano, allora, di Fluxus, o anche di Charlemagne Palestine, e persino di Terry Riley? Ben poco, in effetti...

Singolare è poi – se ci si riflette – l'accostamento che all'epoca è stato fatto tra Battiato e Stockhausen. L'avanguardia europea che il compositore di Colonia rappresentava autorevolmente aveva il culto della partitura – retaggio dell'idea ottocentesca del compositore/autore totale dell'opera sonora – e considerava con un certo scetticismo l'improvvisazione. Eppure – forse in nome della comune vocazione per il “nuovo”, e di un'idea mistica del suono, al di là delle differenze di scuola – i due si sono incontrati e reciprocamente stimati, tanto che Battiato, in dischi come “Clic” e come lo stesso “Sulle corde di Aries”, ha reso in una certa misura omaggio all'illustre tedesco: l'intenzione quasi “prometeica” di Battiato d'altronde (e, sia pure su “altre lunghezze d'onda” e attraverso altri percorsi, di altri validi musicisti come ad es. Frank Zappa) era quella di rendere popolare la ricerca musicale, abbattendo – almeno nello “spazio liberato” del concerto – gli steccati che dividevano di norma i “sapienti” e gli “incolti”. L'avanguardia non doveva più essere appannaggio di poche “anime elette”, ma strumento e occasione per elevarsi collettivamente, musicista e pubblico nello stesso istante e idealmente (talvolta perfino concretamente) sullo stesso palco. L'improvvisazione era la via più adatta per raggiungere questo traguardo, anche perché permetteva di sviluppare idee musicali in sintonia con gli umori e le impalpabili suggestioni provenienti dall'uditorio.

E non è un caso se forse uno dei dischi più belli (non solo a mio parere) di Battiato – e comunque fra i miei preferiti – ovvero appunto “Sulle corde di Aries”, è nato attraverso questo procedimento: la maggior parte dei temi che lo compongono è stata infatti precedentemente “testata” per mesi da Battiato in concerti, nei quali le idee iniziali sono state via via levigate, cesellate, perfezionate quasi “in tempo reale”, o comunque in presenza degli ascoltatori e in parte grazie anche ai loro feedback.

Sulle corde di Aries” è quindi in una certa misura il momento di sintesi di un'esperienza più ampia, e forse è questo uno dei motivi del suo fascino. E' ciò che è rimasto di una “scultura sonora” iniziale, una volta che, pezzo dopo pezzo, concerto dopo concerto, sono state eliminate le parti rivelatesi superflue o sovrabbondanti.

Ma non è solo il procedimento creativo a risultare decisivo: contano anche il linguaggio e le scelte estetiche.

In quasi tutti i brani che compongono l'album, sembra di assistere all'amalgama in teoria “improbabile” eppure nei fatti convincente fra elettronica e memorie remotissime (vagamente “mediterranee”). Il dialogo fra l'ultra-antico e l'iper-moderno, fra un passato tanto remoto da apparirci imprecisabile e la modernità “futuribile” per antonomasia costituita dai sintetizzatori elettronici (per l'epoca all'avanguardia, oggi già obsoleti, per la verità...) è costante, nel disco, e non dà mai la sensazione della forzatura o del kitsch; non c'è la volontà di “stupire a tutti i costi”, che poteva esserci nei precedenti due album. Qui il suono non è usato come strumento di straniamento e di provocazione, perché l'autore sembra il primo a provare stupore e lo trasmette quasi magneticamente all'ascoltatore – stupore di fronte alla sorprendente verginità di un tessuto sonoro dal sapore ancestrale e quindi al cospetto di un tesoro dimenticato da tempo nelle viscere della terra eppure ancora scintillante.

In proposito è illuminante questa dichiarazione di Battiato: «Il sintetizzatore è stato, nella mia esperienza, uno strumento terapeutico. Sono andato al di là dello strumento. Ho fatto dei viaggi misteriosi e fantastici a cavallo del suono. […] Non sperimentavo sulla musica in sé, quanto su me stesso. La ricerca sonora fine a se stessa non mi ha mai interessato. […] mi sono trovato ad armonizzare col sintetizzatore alla maniera greca, a percorrere con suoni artificiali le civiltà passate. Questo è stato veramente interessante! Per me lo strumento elettronico era una specie di macchina del tempo, tramite la quale sondavo la mia psiche percettiva» [Battiato-Pulcini 1992, p. 19].

E' interessante forse scendere più in profondità per cogliere le scelte – in termini di linguaggio musicale – che Battiato ha compiuto nei brani più importanti dell'album.

Il brano principale e più elaborato, quanto a durata e struttura, ovvero Sequenze e frequenze, che occupa interamente la prima facciata del long playing originale, è un vero e proprio set di matrice improvvisativa, sottoposto poi a montaggio in studio. In realtà, alcune parti sono precisamente strutturate e altre affidate alla libera creazione del momento, sempre però all'interno di parametri prefissati.
L'unica parte propriamente free è quella introduttiva, nella quale suoni elettronici, strumenti a fiato e voci di soprano, in assenza di un ritmo ben definito, compongono e scompongono incessantemente, quasi come creature in un acquario, armonie atonali: forse è questo incipit a rinviare più direttamente alle composizioni di Stockhausen.
Ma come se, stanco di fluttuare nell'etere rarefatto e atemporale di queste dissonanti improvvisazioni iniziali, cercasse un equilibrio più solido, il pezzo dopo poco tempo cambia completamente aspetto e il sintetizzatore elettronico, assumendo il ruolo di strumento-guida, comincia a enunciare un tema che fa presto dimenticare le atmosfere free atonali, in quanto si colloca con voluta indecisione  almeno inizialmente  fra il RE dorico (o modo dorico sul RE) e il RE eolico – dunque in ogni caso nell'àmbito dell'improvvisazione modale (in un secondo tempo, l'indecisione cade e il modo dorico si svela).
[Nota. Non è facile spiegare in due parole, o in due righe, specialmente a chi non ha dimestichezza con la teoria musicale, cosa sia in effetti la musica modale – che rinvia al concetto di modo (musicale) – e in cosa si distingua dalla musica tonale, che si basa sulla tonalità, “grammatica sonora” per eccellenza dell'Occidente moderno; in ogni caso, per provare a capire di cosa si tratta, si può dare un'occhiata qui. Per approfondire la questione, può essere utile invece consultare l'eccellente introduzione di L. Rognoni all'ediz. italiana del Manuale di armonia di A. Schönberg: Rognoni 1984, pp. XXI-XXIV.]
E' questa scelta “modale”, per così dire, uno degli ingredienti del sapore arcaico di alcuni brani dell'album, come questo. Ma è anche la maniera con la quale viene presentato e “abbigliato” questo tema che ne esalta la funzione e l'incanto: sembra il residuo di un'antica danza o di un antico canto rituale, spuntato come dal nulla e impadronitosi inspiegabilmente di una fonte iper-moderna di suoni, quale il sintetizzatore, per suggerire la persistenza del passato e delle radici apparentemente perdute, anche sotto la “crosta” spessa del presente sazio di sé e delle proprie confortanti certezze. E' dunque la “teatralità” della comparsa e dell'azione di questo primo tema, oltre che il “DNA musicale” della sua struttura, a scolpirsi come un richiamo di altri mondi nella mente di chi ascolta.
Quando subentra la voce, il testo accentua le suggestioni della musica, contribuendo a garantire l'immersione nei ricordi del passato, e precisamente in un'infanzia raccontata per brevi immagini che assomigliano a icone, quasi come se si trattasse di un racconto collettivo, stilizzato, e non di un'esperienza personale, individuale del “cantore”.
In coincidenza con la linea melodica del canto, il pezzo si fa armonicamente più mosso, spostando continuamente il “baricentro” dall'accordo minore sul RE all'accordo maggiore sulla stessa nota, e poi ancora dall'accordo minore sul RE all'accordo maggiore sul DO.
Sono spostamenti minimi, tuttavia, rispetto a quelli tipici della musica “moderna” (anche “di consumo”): bastano comunque, nella loro strategica frugalità, a ribadire l'estraneità del brano alla logica tonale; il DO maggiore, appena suggerito, viene infatti sùbito “scacciato” per riportare l'atmosfera sonora sotto il dominio del RE dorico o eolico (viene perlopiù eluso il riferimento alla sesta, che potrebbe sciogliere il dubbio fra le due possibilità).
Nel corso della parte cantata, con l'insinuarsi del fa diesis e dunque dell'accordo maggiore sul RE, il baricentro del pezzo si sposta ulteriormente, e al termine del canto si assesta definitivamente sul RE misolidio. Ed è nel quadro di questo “modo”, anch'esso derivante dalla musica premoderna, che si svolge di qui in poi la parte preponderante (in termini di durata) del brano. Sono gli strumenti elettronici a farsi sentire qui, con il supporto di qualche discreta percussione e soprattutto della kalimba, che monopolizza l'attenzione verso la fine.
Se interpretata in termini “tonali”, come il nostro orecchio moderno tende inavvertitamente a fare, questa parte di Sequenze e frequenze sembra il frutto di un'anomala dilatazione della dominante di SOL maggiore [qualche spiegazione sulla nozione musicale di dominante è qui], che rifiuta ostinatamente di “obbedire” all'attrazione della tonica e di cederle dunque il passo.
L'effetto che il RE misolidio produce, in combinazione con la ritmica incalzante (affidata prevalentemente a un bordone di sintetizzatore), è – tale l'accostamento che mi viene sempre in mente – dionisiaco, o bacchico se si preferisce: il dominio è ora quello dell'euforia incontenibile, che vuole abbattere ogni limite e sopravvivere a ogni soprassalto di stanchezza, per ridarsi continuamente nuova energia, attingendola inspiegabilmente da se stessa. Il lungo segmento improvvisativo che conduce alla conclusione del brano è punteggiato da fraseggi ora impazienti e densi, ora più distesi e dilatati, del sintetizzatore: qui il riferimento alle epoche si fa confuso, come se ci si addentrasse in un'atmosfera onirica; non si è più sicuri di viaggiare tra scorci del passato, ma non si è ancorati neppure nel presente, che grazie a quell'indecifrabile “ribellione della dominante” (errore interpretativo del nostro “orecchio mentale”, come si diceva) sembra essersi dissolto – sta a noi decidere se tale assenza ci sconcerta o ci solleva (anche solo per lo spazio di un disco...).
Unico neo di un brano peraltro affascinante: proprio la lunga parte conclusiva sembra talora – forse per la sua eccessiva dimensione rispetto al resto – patire momenti di “fiacchezza” creativa (rischio che d'altra parte sempre si corre quando si fa musica “senza spartito” o con un semplice canovaccio): qualche taglio in più in fase di “montaggio” avrebbe risolto certi scompensi.

Bisogna notare anche che Battiato si era già misurato con una struttura musicale molto simile almeno in un altro brano, un po' più breve di Sequenze e frequenze: mi riferisco a Beta contenuto nel precedente album, “Pollution”.
Anche Beta comincia infatti con un magma sonoro privo di ritmo e di un preciso riferimento tonale o modale, realizzato unicamente attraverso suoni emessi dal sintetizzatore “VCS3”, che con la sua intonazione imprecisa e oscillante e il suo timbro corposo sembra apportare un tono di irriverenza “barbarica”. Ad esso si accompagna, da un certo punto in poi, la voce di Battiato, che esegue una sorta di recitativo. Finito questo segmento, il clima cambia completamente: fattosi da parte il sintetizzatore, entrano in scena un coro di voci distorte, un pianoforte (in qualche punto rimpiazzato da una chitarra elettrica) e la sezione ritmica, per dar vita a improvvisazioni eseguite nel modo di LA dorico, all'interno delle quali perlopiù il piano ha il compito di “tenere il filo” e di riportare a galla, di quando in quando, come una reminiscenza onirica, un tema già sentito in brani precedenti dell'album, mentre il coro “distorto” spazia liberamente fra le diverse note del modo dorico sul LA, avventurandosi spesso in intrecci dissonanti, tuttavia sempre cangianti e tendenti al vago. Anche in questo caso, il riferimento alla musica modale tende a creare nell'ascoltatore una sorta di ideale “falla temporale”, dalla quale si affacciano a sorpresa ere perdute, forse conservate sui “fondali” di una qualche “memoria ancestrale”, in attesa di essere riscoperte. Non è però solo l'impianto modale del pezzo a suscitare simili effetti e sensazioni: un ruolo importante in ciò è svolto dal particolare arrangiamento, nel quale il pianoforte, coi suoi interventi misurati e perfettamente “squadrati”, rappresenta in un certo senso la parte “razionale”, o la coscienza, e le voci, irreali e sinuose, il territorio del sogno, dai confini fluttuanti, nel quale la coscienza rischia ad ogni passo di smarrirsi. Un brano come Beta (alla pari di gran parte dell'album che stiamo esaminando) potrebbe in effetti rappresentare un bell'esempio di “musica onirica” – a mio parere la più difficile da realizzare, giacché, proprio come i sogni, non si può evocare a comando e sembra comparire qua e là, inattesa.

Tornando a “Sulle corde di Aries”, il pezzo che apre la seconda facciata del vinile, intitolato Aries, ha l'aspetto di un intermezzo, perché risulta, nella sua brevità, diverso dagli altri che compongono l'album – ed è l'unico nel quale le improvvisazioni si spingono verso i territori del jazz vero e proprio (non particolarmente amato da Battiato, che però in rari casi, specie in questo periodo, è disposto a fare delle eccezioni).

Aria di rivoluzione è un brano che si presenta formato da due metà quasi speculari: la prima, cantata e quasi interamente predeterminata dall'autore, e la seconda affidata ai soli strumenti e consistente in improvvisazioni.
In apparenza, a giudicare dal testo, è una delle composizioni più “politiche” di Battiato – tenendo anche conto che vi sono parti nelle quali una voce femminile (che è quella di Jutta Nienhaus, vocalist degli Analogy, gruppo “prog-rock” transnazionale di quegli anni) recita in lingua originale versi senz'altro “impegnati” di Wolf Biermann, un poeta tedesco (dell'ex DDR, la Germania comunista).
Ancor più che di rivoluzione, come il titolo promette, i testi (sia quello cantato che quello recitato) parlano in realtà di guerra: una guerra che inizialmente non sembra viva e presente, in quanto vissuta attraverso i ricordi di altre generazioni; in particolare, il musicista siciliano fa – cosa per lui inconsueta – un riferimento autobiografico ed evoca l'immagine di suo padre, camionista in Abissinia durante la seconda guerra mondiale. E per celebrare ottusamente la propria autodistruzione in quella guerra, l'Europa – fa notare l'autore – ha sostituito le proprie «canzoni» (nelle quali è evidentemente racchiusa la voglia di esistere e di evolversi) con angoscianti «sirene d'allarme».
Il presente subentra nella seconda strofa e risulta ugualmente assorbito dall'impulso alla guerra («Passa il tempo, / sembra che non cambi niente» canta polemicamente Battiato), che però assume nuove forme e si manifesta sempre più come guerra civile “sottotraccia”, anche laddove sembrano esserci pace e benessere; la richiesta di «nuovi valori» proveniente dai giovani ha come controcanto sonoro non più le sirene d'allarme, ma le grida di «chi andrà alla fucilazione».
Si tratta forse di un incubo, ma certo è una delle immagini più dure utilizzate da Battiato nei testi delle sue canzoni: risente senz'altro del clima di grande contestazione (generazionale, ma non solo) di quegli anni e delle paure che li attraversavano (se si guardava al di là dei confini italiani, del resto, le “grida” dei “fucilati” e dei torturati erano una realtà quotidiana nei cosiddetti “regimi dell'ordine”; e qualcuno, a quell'epoca, avrebbe voluto fare in Italia “come in Cile” o “come in Grecia” - quella del regime dei colonnelli, beninteso, e non quella di Socrate o Platone...).
Musicalmente anche questo brano di “Sulle corde di Aries” unisce l'uso degli strumenti elettronici con le suggestioni del passato; infatti, oltre all'impianto modale, che troviamo anche qui, si può rilevare che la parte del canto, riprendendo antiche tradizioni “mediterranee” (a partire dal canto gregoriano, che però non sembra essere il modello di riferimento principale) è perlopiù melismatica [si veda qui per avere qualche nozione sul cosiddetto melisma], dunque si discosta dall'uso moderno (soprattutto in ambito pop e generalmente “leggero”) che predilige il canto “sillabico”, forse perché più concentrato sul senso del testo.
La parte delle improvvisazioni strumentali, che funge da lunga “coda” del pezzo, è piuttosto statica, e acquista poco risalto, anche rispetto alle analoghe parti degli altri brani dell'album, ed è forse per questo che nella prima ristampa antologica dei primi quattro dischi di Battiato (ovvero nel doppio LP “Feedback”, del 1976) verrà tagliata e la parte cantata di Aria di rivoluzione farà da preludio alle improvvisazioni strumentali di Sequenze e frequenze.

Il brano che chiude l'album, Da Oriente a Occidente, comincia con un tema accennato dal sintetizzatore, che ci riporta agli echi ancestrali del brano iniziale, sospeso com'è tra RE dorico e RE eolico (anche qui, per l'omissione della sesta). La voce compare presto in scena e stavolta il testo decisamente evoca suggestioni dell'antichità al limite del mito: parla di un viaggio da compiere, «lontano da queste tenebre», dove «matura l'avvenire». Si tratta quindi di un viaggio simbolico, che permetta una rinascita interiore: «al fuoco delle tenebre / scelgo una nuova vita» sono infatti le parole con le quali si conclude il canto. Sùbito dopo, torna a farsi sentire il primo tema di Sequenze e frequenze, in modo dorico ma stavolta sul SOL; cambiano anche gli strumenti ai quali è affidato: non più sintetizzatori elettronici ma oboi e percussioni “etniche”, ai quali si affiancano successivamente la mandola e un coro che esprime vocalizzi.
L'incontro “ad occhi aperti” col passato è qui una suggestione ancora più forte che all'inizio dell'album, forse anche grazie alla strumentazione apparentemente “arcaica” (ed espressamente “mediterranea”); il tema fa da spunto a nuove improvvisazioni, che sono particolarmente riuscite e convincenti, senza forzature o tempi morti, e sembrano evocare danze d'altri tempi – non agevolmente identificabili, ma genericamente lontanissimi – o anche rituali collettivi ancestrali [si veda anche A. La Posta 2010, p. 43, che in proposito parla di riti «legati alle ricorrenze dei cicli stagionali nell'agricoltura antica»]. La chiusura della lunga improvvisazione – e dell'album – è affidata all'iniziativa della mandola, che fa convergere su sé l'attenzione dell'ascoltatore e degli altri strumentisti e con pochi fraseggi netti porta la tensione accumulata dalla musica a spegnersi su se stessa, senza transizioni (e dunque senza le tradizionali cadenze tonali): l'eco della danza antica (o del rito) s'interrompe bruscamente, come un sogno, e per qualche istante, a causa di questo “risveglio” improvviso, si ha l'impressione del vuoto, la vertigine del silenzio, che col sottinteso della nostalgia moltiplica il potere della musica, dandoci la certezza che torneremo a cercarla, ad ascoltarla.

All'epoca in cui “Sulle corde di Aries” venne pubblicato, alcuni esperti della stampa specializzata cercarono di capire di quali influenze musicali fosse “debitore”, e fecero ad esempio i nomi di Terry Riley o dei Popol Vuh. E' indubitabile che un album come “Hosianna Mantra” (1972), dei Popol Vuh appunto, riveli all'ascolto – nonostante l'assenza di suoni di matrice elettronica – molte affinità con l'album di Battiato (un discorso analogo si può fare per certe composizioni di Riley; e altri nomi si possono senz'altro citare): come sempre, una composizione o in genere un'opera artistica mostra inevitabilmente il suo essere figlia di un ambiente storico e culturale preciso, la sua vicinanza a certe aspirazioni espressive, culturali, sociali, ecc., di un determinato periodo; ma, se ha “filo da tessere”, mostra anche qualcos'altro, che le appartiene in via esclusiva – qualcosa che possiamo definire approssimativamente come lascito originale.
Deriva probabilmente dal particolare valore di questo “lascito” la difficoltà che si incontra se si tenta classificare o incasellare “Sulle corde di Aries” in qualche genere: è musica elettronica? Sì, ma anche altro. E' “musica etnica”? Sembra, ma non lo è propriamente. Sono “canzoni d'autore”? Non nel senso che di solito si dà all'espressione. E' musica d'avanguardia? Non nel senso ortodosso del termine (non c'è il rifiuto dell'armonia o della melodia, ad es., e non ci sono parentele strette con Cage, Stockhausen, ecc., anche se una certa attiguità c'è)... E così via.

Forse anche per questa sua inclassificabilità “Sulle corde di Aries” non ha quasi “eredi”, se si eccettua l'album immediatamente successivo di Battiato (“Clic”, del 1974): è un'esperienza che rimane pressoché isolata nel panorama musicale nostrano. E anche altrove si tentano in massima parte (salvo illuminate eccezioni) fusioni fra i generi che risultano cerebrali, “di maniera”, in cui si sente prevalere la filologia o la bravura dell'interprete – soprattutto nell'accumulare citazioni, che tali restano se viste sullo sfondo dell'insieme. La “suggestione del suono”, o il suono come veicolo di suggestione è cosa diversa rispetto alle “fusioni” o fusion dominate dalla tecnica (esecutiva, principalmente, ma adesso anche “campionatoria”) o dalla moda. E del resto, quando la “fusione” fra i “generi” diventa essa stessa un genere, una maniera, probabilmente perde la sua carica genuina, la sua forza primigenia.
Se restiamo negli anni Settanta, qualche paragone si può fare, per un verso, con “Sonanze” (1975) di Roberto Cacciapaglia (che a tutt'oggi è purtroppo un unicum nella produzione di questo autore) o, per un altro, con qualche lavoro degli Aktuala e soprattutto di Lino Capra Vaccina (“Antico adagio”, 1978), tutte opere rimaste però all'epoca pressoché sconosciute ai più.

Lo stesso Battiato si è poi concentrato su altri percorsi creativi, abbandonando ad esempio progressivamente il ricorso all'improvvisazione per rivalutare il procedimento compositivo “classico” (la scrittura “esatta” delle note sul pentagramma, dunque la predeterminazione precisa di melodia, armonia, ritmo, timbri, dinamiche, ecc.), e si è infine riconciliato – dopo aver portato per un po' la sua “sperimentazione” in un alveo accademicamente meno “alieno”  – con i “generi musicali” di successo popolare. Non ha perso inventiva e talento, certo, e scrive ancora brani degni di nota; eppure in qualche modo le intuizioni felici di “Sulle corde di Aries”, che sapevano far riecheggiare con profonda suggestione mondi perduti e chissà come ricomparsi, si fanno rimpiangere.


Testi citati:


- [Rognoni 1984]: L. Rognoni, Introduzione all'ediz. it. di A. Schönberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, Milano.

- [Battiato-Pulcini 1992]: F. Battiato, Tecnica mista su tappeto. Conversazioni autobiografiche con F. Pulcini, EDT, Torino.


- [A. La Posta 2010]: A. La Posta, Franco Battiato. Soprattutto il silenzio, Giunti, Firenze-Milano.

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