Seconda parte
Il secondo capitolo de Il
Principe senza scettro si sofferma su “Lo spirito della
Resistenza”. Qui Lelio Basso sottolinea il contributo che
l'esperienza della lotta al fascismo ebbe per la maturazione dei
valori democratici che sarebbero poi stati alla base della
Costituzione repubblicana, ma mette anche in evidenza i problemi e le
difficoltà coi quali la Resistenza dovette fare i conti, e che le
impedirono – a differenza di quel che avvenne in altri contesti
nazionali, ad es. in quello francese – di essere la fonte chiara e
univoca di un nuovo pensiero politico e di un conseguente e organico
programma di riforme. Come nota il deputato socialista, dopo la
«lunga notte fascista» che «aveva reso
impossibile in Italia una continuità di pensiero democratico»,
isolando le giovani generazioni e impedendo loro qualsiasi contatto
con gli «sviluppi del pensiero e delle esperienze internazionali»
[Basso 1998, pp. 93-94],
negli anni della Resistenza «[n]on vi fu
[…] una vera simbiosi fra le masse e il personale politico
specializzato, entrati da poco in contatto e preoccupati, le une e
gli altri, soprattutto delle esigenze belliche immediate; le loro
idee e il loro linguaggio non furono sempre coincidenti, anche se,
naturalmente, si andò a poco a poco creando una fusione sempre più
organica. […] Ed è anche per questo che è più appropriato
parlare, per quanto riguarda l'Italia, di uno “spirito” della
Resistenza, piuttosto che di un vero e proprio pensiero.» [Basso
1998, p. 94]
Secondo Basso, questo
“spirito”, che accomunava le varie componenti dei Comitati di
Liberazione Nazionale e i cittadini desiderosi di modificare le
fondamenta istituzionali del Paese, si può «riassumere in una
frase: fare tutto il contrario del fascismo» [Basso
1998, p. 99]. Dietro la facciata dello slogan polemico, e
a monte di esso, L. Basso sviluppa una riflessione che parte dai dati
storici del colpo di stato del 25 luglio, che con la sua «facilità
addirittura operettistica […] mise a nudo, dietro la cortina
fumogena creata dalla propaganda, la natura di cartapesta del regime»
e della fuga dell'8 settembre, che squalificò definitivamente la
monarchia, per ricordare la condizione in cui si trovò il popolo
italiano in quegli ultimi mesi del 1943, ossia «veramente solo: solo
colla propria coscienza. Quattro anni prima che la Costituente la
registrasse nel testo dell'articolo primo, la democrazia, cioè la
maturità e la responsabilità del popolo, nasceva da questa diretta
esperienza [...]» [Basso 1998, p.
99].
La democrazia coincide
dunque con la maturità di un popolo che si rende conto che, svanite
tutte le illusioni e rivelatisi i vecchi poteri (frutto di dinastie
di ancien régime, di oligarchie, di dittature, ecc.) come
soggetti opportunisti e parassitari interessati soltanto alla propria
sopravvivenza anche a spese del popolo medesimo – che peraltro
considerano estraneo e cinicamente “sacrificabile” –, deve fare
affidamento soltanto sulle proprie capacità ed energie e assumersi
la responsabilità di compiere scelte. Definizione più incisiva
della democrazia – ideale e al tempo stesso pragmatica, di
“spirito” e di “carne” a un tempo – non può forse esserci.
In tal modo, lo “spirito”
della Resistenza si manifesta segnando alcune precise priorità:
«Ricostruzione dal basso, impegno e responsabilità di ciascuno per
assolvere nel miglior modo il proprio compito, liquidazione
definitiva del passato» [Basso 1998,
p. 99].
All'idea di democrazia come
età della “maturità politica” di un popolo è connaturato il
concetto di responsabilità, e non a caso Lelio Basso lo rimarca a
più riprese. In particolare sottolinea come uno dei valori che «fu
conquistato quasi d'impeto in quei mesi» sia «il senso della
responsabilità personale, principio e fondamento di ogni vita
democratica» [Basso 1998, pp.
99-100].
La dittatura fascista si era
adoperata quasi “scientificamente” per avvilire e umiliare le
persone e il loro senso di libertà e di dignità, «la coscienza che
ciascuno deve avere del proprio diritto e dovere di scegliere, di
decidere, di assumere delle responsabilità», provando
sistematicamente ad annullare tutto questo «nel conformismo,
nell'indifferentismo o nell'ipocrisia» [Basso
1998, p. 100], i buoni “compagni di viaggio” di ogni
sistema autoritario e autocratico.
Con la democrazia, le
persone (ri)conquistano il diritto di non essere “conformi” a un
modello prestabilito (da un regime di turno o da un'ideologia) ma
anche la responsabilità di confrontarsi coi propri simili, poiché
decidere ciò che è bene per la collettività non è un privilegio
concesso a pochi, e del quale non si debba render conto ai
“governati”, ma una facoltà che discende dalla dignità stessa
di cittadino, che a tutti spetta in egual misura.
Nel terzo e nel quarto
capitolo del libro, Lelio Basso parla rispettivamente del lavoro di
elaborazione che ha portato alla Costituzione e dei contenuti di
quest'ultima.
Egli innanzitutto affronta
una celebre critica che veniva (e tuttora viene) mossa alla
Costituzione, ovvero quella «di essere sorta sulle fragili
fondamenta di un compromesso politico fra i principi del liberalismo
e quelli del socialismo, senza soddisfazione né delle correnti
liberali né di quelle socialiste, e, quel che più importa, senza
un'organicità giuridico-politica con lo sviluppo storico del paese»
[Basso 1998, p. 131].
In realtà, usato in questo
contesto, il termine “compromesso”, in sé non necessariamente
negativo, serve spesso a costruire una “narrazione” (diremmo
oggi) che giustifichi «l'applicazione di una vera e propria
“costituzione di fatto” presentata in maniera arbitraria come
rispondente alla reale fisionomia storico-politica della nazione, in
contrapposizione alla costituzione “di diritto” votata nel
dicembre 1947, denunciata invece come una astratta enunciazione di
principi ibridamente fusi in una congiuntura storica e politica di
eccezione» [Basso 1998, pp. 131-132].
E' una “narrazione”,
questa, che è servita allora (negli anni Cinquanta) come in séguito
per giustificare i ritardi nell'applicazione delle norme
costituzionali, o le “deviazioni” della prassi politica rispetto
alla lettera della Costituzione; ma le “circostanze eccezionali”
del 1946-48, lungi dall'essere un “incidente di percorso” da
dimenticare al più presto, sono state in effetti un'occasione
importante di reciproco riconoscimento delle forze politiche che
rappresentavano le maggiori tendenze ideali e le “famiglie
ideologiche” presenti in Italia, occasione che ha consentito il
determinarsi di un accordo di alto livello per disegnare attraverso
la Carta costituzionale il futuro democratico del Paese.
Così, il compromesso che
pure vi fu tra le forze di ispirazione cattolica, quelle di
ispirazione socialista e quelle liberal-democratiche (secondo la
tripartizione proposta da Basso), «non si risolse in una
giustapposizione di principi inconciliabili, ma rappresentò una
sintesi non infelice, sostanzialmente vitale» [Basso
1998, p. 132] che, eccettuate alcune norme nelle quali la
presenza di reciproche concessioni è evidente, fece emergere un
accordo di tutte le forze politiche dell'arco costituente sui valori
fondamentali che lo “spirito della Resistenza” aveva contribuito
a manifestare e a sostenere.
Basso ricorda come nei
dibattiti della Costituente si andò delineando un concetto di
cittadino non più inteso come astratto “tassello” del corpo
politico, ovvero dell'edificio-Stato, ma come soggetto concreto
inserito in una società della quale subisce le iniquità, soggetto
che quindi deve essere messo in grado di contribuire coi propri
simili, in condizioni di parità, alla determinazione degli indirizzi
politici, sociali ed economici del Paese. Il cittadino, per il
Costituente, proprio perché si identifica in una figura concreta (il
che implica un'opzione politica forte), è anche un lavoratore:
«la preoccupazione del costituente di assicurare l'uguaglianza del
cittadino non è fine a se stessa, ma mira ad assolvere a una
precisa funzione, per cui sembra possibile la concreta
identificazione del cittadino stesso nel lavoratore come
cellula umana costitutiva, organica della società costituzionale, e
innanzi tutto come unità tipica, sotto il profilo sociale ed
economico e quindi giuridico, di quel “popolo” al quale
appartiene […] la sovranità e che l'on. Ruini definì vero e
proprio “organo fondamentale” della Costituzione.» [Basso
1998, pp. 140-141]
Naturalmente
– come L. Basso opportunamente commenta – l'accordo raggiunto tra
le forze politiche in seno alla Costituente su questo modo di
intendere la nozione di cittadino esclude che il concetto di
“lavoratore”, in tale contesto, possa avere una connotazione
classista, anche se la sua comparsa nei lavori della Costituente e
poi nel testo definitivo della Costituzione è segno inequivocabile
di «un graduale spostamento dell'asse sociale ed economico
dello Stato moderno dai ceti capitalistici ai ceti lavoratori»
[Basso 1998, p. 141] che le
forze politiche democratiche non possono non registrare.
Questa
concezione della cittadinanza emerge a più riprese nel dibattito; lo
stesso Lelio Basso, nella sua attività di costituente, la considerò
alla base delle norme sul diritto di voto, tanto da proporre nella I
Sottocommissione che esso non dovesse essere concesso, tra gli altri,
«a coloro che non esercitano un'attività produttiva». E sul
principio vi era sostanzialmente un largo consenso, tanto che Moro
intervenne per sostenere che «la proposta si armonizzava con le
norme “sancite nella Costituzione in base alle quali non è
assolutamente concepibile vi siano in Italia persone che non si
dedicano volontariamente a un'attività produttiva” (benché
proprio per questa ragione dubitasse dell'opportunità di ribadirla)»
[Basso 1998, p. 147].
Circa
il testo che poi è stato approvato in via definitiva dall'Assemblea
Costituente ed è diventato la Costituzione della Repubblica
italiana, Lelio Basso rileva come esso – nonostante i suoi molti
pregi e i princìpi avanzati che enuncia – non sia del tutto
armonico, dal momento che non sempre le forze innovatrici sono
riuscite a far prevalere il loro punto di vista rispetto alle
posizioni degli elementi più conservatori dell'Assemblea. Una delle
parti della Costituzione che evidentemente non soddisfa del tutto
Basso è quella riguardante gli organi statali, che risente di vecchi
schemi liberali non più adeguati ai tempi: «In modo
particolare rimangono come espressione del vecchio Stato il
bicameralismo e l'indipendenza dei parlamentari.» [Basso
1998, p. 164]
A
giudizio di L. Basso, il bicameralismo venne sancito nel testo
definitivo della Costituzione soprattutto con lo scopo di fungere da
ostacolo alle politiche che i partiti di sinistra avrebbero
prevedibilmente sostenuto in Parlamento. Per di più, il
bicameralismo non è stato aggiornato ai tempi, prevedendo – come
in altri ordinamenti all'epoca esistenti – la prevalenza di una
Camera sull'altra; si è preferito invece un obsoleto e
ingiustificato “bicameralismo paritario”, «cercando poi
di introdurre elementi estrinseci di differenziazione (età degli
elettori, età degli eleggibili, durata) che in realtà non hanno
nessuna giustificazione» [Basso 1998,
p. 164].
Altro principio proveniente
dalla tradizione liberale è quello che Basso definisce qui della
«indipendenza dei parlamentari rispetto al corpo elettorale» e che
con linguaggio tecnico-giuridico si definisce in genere come “divieto
del mandato imperativo”. Secondo il deputato socialista, un simile
principio contrasta con la realtà della democrazia imperniata sui
partiti e con la stessa norma costituzionale che sancisce la funzione
dei partiti medesimi, ovvero «quella di concorrere alla
determinazione della politica nazionale (art. 53 [sic; in
realtà si riferisce all'art. 49: mia nota esplicativa]),
dato che il modo più efficace con cui i partiti possono assolvere a
questa loro funzione è quello appunto di dare direttive ai propri
rappresentanti in Parlamento.» [Basso
1998, pp. 164-165]
Sono temi sui quali ancora
oggi si dibatte: come si vede, Basso offre spunti di riflessione
tanto sul superamento del “dogma del bicameralismo” (da lui
auspicato in tempi non sospetti) – benché vi siano buone ragioni
per conservare tale assetto del legislativo, sacrificandone soltanto
l'eccesso, ovvero la forma “paritaria” – quanto sulla revisione
o abolizione del “divieto di mandato imperativo”, che oggi viene
invocata per motivi differenti da quelli indicati da Basso (che
tuttavia sono importanti, giacché i partiti in tutti questi decenni
hanno vanificato l'assolutezza di quel principio, condizionando di
fatto il voto in aula dei loro eletti), ovvero sul presupposto di una
maggiore coerenza dell'eletto rispetto agli impegni assunti in
campagna elettorale.
Di
fondamentale importanza, come ognuno comprende, è l'affermazione
contenuta nell'art. 1, comma 2, della Costituzione, secondo la quale
“la sovranità appartiene al popolo”: è una formulazione chiara
e semplice, che vuol rendere esplicito il carattere democratico dello
Stato, esaltando fin dall'esordio del testo la centralità del
cittadino, e tuttavia, come ricorda L. Basso, si è giunti a quella
versione dell'art. 1 dopo un lungo dibattito nell'Assemblea
Costituente, e il testo inizialmente previsto era: “La sovranità
emana dal popolo”, certamente più “timido” e meno incisivo
[Basso 1998, p. 167].
Il
popolo però non è un “corpo astratto” e la Costituzione non
intende avallare la concezione vetero-liberale che faceva del popolo
o della “nazione” soggetti «omogenei ed esprimenti
un'unica volontà» [Basso 1998, p.
171], e pertanto fittizi. In altre parole, il popolo di
cui parla la Costituzione è un popolo fatto di concreti soggetti,
con le loro differenti idee e aspirazioni, dunque un popolo
articolato, un “popolo-pluralità”.
E' per questo motivo che la
mediazione dei partiti si rende necessaria: essi rappresentano la
pluralità delle posizioni, degli interessi, delle prospettive
presenti nella collettività e ricevono dagli elettori un mandato che
ha una duplice finalità: da un lato, sostenere una determinata
visione della società e dell'azione politica e darle visibilità, e
dall'altro contribuire a ricomporre in sede parlamentare e
istituzionale i diversi e talora contrapposti interessi dei
cittadini.
Questi ultimi dunque, nella
cabina elettorale, votano a favore di un partito prima ancora che di
un parlamentare; il partito si fa garante del programma elettorale e
dell'operato dei singoli eletti, è al partito innanzitutto che
l'elettore chiede conto. Ecco perché Basso sostiene che è un
equivoco ritenere «che il Parlamento riceva direttamente dal corpo
elettorale la sua investitura» [Basso
1998, p. 171]. Senza la partecipazione di una pluralità
di partiti alla competizione elettorale, quest'ultima non si
può ritenere valida (non rispetta infatti i requisiti minimi di
pluralismo democratico): non è sufficiente che vi sia una pluralità
di candidati.
Secondo Basso, la
Costituzione prevede e incoraggia una partecipazione costante del
cittadino alla politica: dunque, in netto contrasto con le concezioni
vetero-liberali dei diritti politici dei cittadini, le elezioni
parlamentari non sono «l'atto unico, o press'a poco, della
sovranità» [Basso 1998, p. 174].
Il cittadino ha molte forme di partecipazione a sua disposizione, a
cominciare dagli istituti di democrazia diretta; i diritti a questi
connessi sono «esercitabili continuamente, e il cittadino che li
voglia esercitare effettivamente non deve spogliarsi mai del suo
abito mentale di cittadino-sovrano: si pensi, per esempio, che il
Parlamento approva ogni anno centinaia di leggi, nella grande
maggioranza suscettibili di essere sottoposte a referendum
abrogativo, e si vedrà che se il popolo vuole avere la certezza
che i suoi interessi siano bene gestiti dai suoi rappresentanti
ne deve sorvegliare l'attività, si può dire, ogni giorno.»
[Basso 1998, p. 175: corsivo aggiunto
da me]
Questa considerazione
riveste un'importanza particolare, se teniamo conto del fatto che
quando Basso la espresse non era stata ancora emanata la legge
attuativa dell'art. 75 della Costituzione, sul referendum abrogativo
(solo nel 1970, a ben 22 anni di distanza dall'entrata in vigore
della Costituzione, essa venne approvata e varata). Implicitamente
qui l'autore ci dice il perché del ritardo del legislatore
ordinario: non si voleva incoraggiare la “maturità” del
cittadino controllore “quotidiano” dell'operato dei suoi
rappresentanti, anzi si voleva decisamente scoraggiare un simile
atteggiamento...
Come ricorda L. Basso, i
cittadini possono inoltre contribuire a determinare la politica
nazionale attraverso i partiti, che devono essere associazioni,
organismi aperti al loro intervento e al loro contributo: è lo
spirito che informa l'art. 49 della Costituzione [Basso 1998, p.
175], che il deputato socialista ha personalmente elaborato,
durante i lavori dell'Assemblea Costituente.
In
definitiva, secondo Lelio Basso, «[...] il nuovo sovrano, il
popolo, non diversamente da quanto faceva o avrebbe dovuto fare il
sovrano assoluto delle antiche monarchie, deve considerarsi sempre
nell'esercizio delle proprie funzioni, che non sono soltanto quelle
di votare, ma altresì quelle di sorvegliare, controllare, criticare
e insomma fare quanto è necessario perché la sua vera volontà (che
è poi la risultante di tante diverse e contrastanti volontà) si
traduca in azione politica e legislativa.» [Basso
1998, p. 176]
Questa
riflessione permette di comprendere meglio la portata
“rivoluzionaria” dei princìpi sanciti dall'art. 1 della
Costituzione: un'importante conseguenza giuridica, prima ancora che
politica, dell'affermazione del costituente secondo la quale la
sovranità “appartiene al popolo”, è che vi deve essere una
corrispondenza necessaria e continua «fra la reale volontà
popolare e gli organi a cui il popolo affida l'attuazione di questa
volontà, in modo particolare, naturalmente, le assemblee
parlamentari» [Basso 1998, p. 176].
Queste ultime devono essere «la fotografia il più possibile fedele
dei contrasti di opinioni e di tendenze politiche che esistono nel
Paese» e, secondo Basso, la Costituzione rispetta e rispecchia
questo principio, sicché «il rapporto fra l'Italia, cioè il popolo
italiano, e la Repubblica, cioè gli organi statali, sarà veramente
democratico, come vuole il primo articolo della Costituzione, quanto
più il Parlamento sarà specchio fedele del popolo» [Basso
1998, p. 176].
E' vero che – come
stabilisce l'art. 67 della Costituzione – il parlamentare
rappresenta “la Nazione” e non singoli cittadini o gruppi di
elettori, ma è altresì vero – secondo le tesi di L. Basso – che
la libertà di interpretare la volontà della Nazione, che
apparentemente il testo costituzionale assegna a ciascun singolo
parlamentare (liberandolo da qualsiasi “vincolo di mandato”, come
si è già detto), non può spingersi sino al totale arbitrio ma deve
rimanere ancorata alle reali richieste provenienti dai
cittadini-elettori, alle loro priorità e alle loro visioni del
mondo; giudici del “buon uso” della libertà della quale il
parlamentare dispone non possono essere che i cittadini stessi,
membri del “popolo sovrano”, dalla cui volontà scaturisce la
stessa “investitura” conferita ai singoli parlamentari, il che
equivale a dire che la carica di parlamentare non è un privilegio
concesso a qualcuno “per meriti speciali ed esclusivi” affinché
se ne serva a proprio piacimento e a detrimento della collettività e
dei suoi interessi, bensì un ruolo consistente in una precisa
funzione di rango costituzionale, sottoposta al continuo vaglio dei
“deleganti”, i cittadini-elettori, i quali non perdono mai,
in nessun istante, la funzione di soggetto sovrano.
Il referendum abrogativo e
lo scioglimento anticipato delle Camere sono due degli istituti che
la Costituzione prevede affinché i cittadini possano porre rimedio
agli eventuali scostamenti delle assemblee parlamentari – e
conseguentemente dei governi – dalla reale volontà popolare.
Tuttavia dal principio della
corrispondenza necessaria fra volontà popolare («e cioè, in realtà
– come Basso opportunamente chiarisce –, le molteplici volontà e
tendenze del popolo») e rappresentanza parlamentare discende anche
un'altra importante conseguenza, oggigiorno poco considerata (e non
casualmente): la necessità della rappresentanza proporzionale. E'
proprio in virtù del legame strettissimo fra principio della
corrispondenza volontà popolare/volontà parlamentare (base
essenziale della democrazia) e legge elettorale proporzionale che
«s'è potuto sostenere che la proporzionale, pur non essendo
espressamente menzionata, deve intendersi connaturata allo spirito
della Costituzione» [Basso 1998, p.
178]. Nell'affermare questo, Lelio Basso si richiama al
parere di illustri studiosi della materia costituzionale, come
Mortati.
L'unico sistema elettorale
che garantisce il rispetto della sovranità popolare è quello
proporzionale (senza premi di maggioranza, è utile specificare, dato
che questi hanno la stessa funzione dei meccanismi elettorali
maggioritari); il sistema elettorale maggioritario infatti sacrifica
la rappresentatività delle Camere in nome della cosiddetta
“governabilità”: quest'ultima, che sembra in cima alle
preoccupazioni dei governanti e dei “riformatori” d'oggi, è
a ben vedere il residuo di una concezione davvero arcaica del potere,
ancien régime verrebbe da dire, secondo la quale il “potere
di comando” dev'essere in una sola mano, senza alcuna forma di
condivisione – il che, se si riflette, è in contrasto con
l'esigenza comprensibile e diffusa e, questa sì, schiettamente
democratica, di rafforzare gli strumenti di intervento dei cittadini,
di controllo (costante) sull'operato dei pubblici poteri, di
democrazia partecipativa.
Come ha recentemente e
incisivamente sostenuto Luciano Canfora, il sistema proporzionale è
il solo che rispetti il principio che sta a fondamento del suffragio
universale: un uomo, un voto. Egli ha aggiunto che è nel principio
maggioritario «la causa vera del disastro della rappresentanza.
L'argomento della cosiddetta governabilità è fatuo. La
governabilità più semplice è il tiranno: il monarca incarna la
governabilità più rapida. […] Perché il principio proporzionale
è l'unica forma di attuazione del suffragio universale? Perché
nelle società nostre, dove è una minoranza numerica quella che sta
male, noi proprio a quella togliamo la rappresentanza. Non si
vogliono avere in Parlamento delle minoranze che possano inceppare la
macchina» [Canfora-Zagrebelsky 2014, pp. 93-94].
E Zagrebelsky, nella sua
replica a Canfora, dopo aver sottolineato il ruolo che i partiti
hanno nel far funzionare (o non funzionare) il sistema proporzionale,
dovendo «fare aggregazione, rinunciando a qualche cosa di sé per
costruire un quadro di collaborazione possibile»
[Canfora-Zagrebelsky 2014, p. 94], commenta fra l'altro:
«[...] il premio di maggioranza servirebbe a dare stabilità solo se
potesse impedire il trasformismo, vizio italiano di coloro che,
eletti con i voti d'una parte, poi passano dall'altra parte per
motivi che, spesso, hanno poco o nulla di politico. Ma, a questo
proposito, finché esiste la libertà del mandato, ci si può
affidare solo alla correttezza del singolo parlamentare. Cioè, il
serpente si morde la coda.» [Canfora-Zagrebelsky 2014, pp. 94-95]
Vi è dunque consonanza in
queste riflessioni con i dubbi espressi da Lelio Basso nel 1958 circa
la validità odierna e la sensatezza del “divieto del mandato
imperativo”, e soprattutto la sua compatibilità col principio
della sovranità popolare, se vengono rigorosamente tratte tutte le
conseguenze politiche e istituzionali che quest'ultimo comporta.
A questo proposito, L. Basso
ritiene che sarebbe conforme allo spirito della Costituzione una
norma «che stabilisse la revoca del mandato di quei parlamentari che
abbandonano il partito nel cui nome sono stati eletti, e
presumibilmente si staccano in tal guisa dai propri elettori» [Basso
1998, p. 178].
Dal carattere democratico
delle istituzioni disegnate dalla Costituzione si ricava, secondo
Lelio Basso, anche il principio in base al quale l'opposizione
parlamentare «svolge una funzione sovrana» in quanto essa è parte
integrante del popolo, e la sovranità di cui parla la Carta
costituzionale spetta «a tutto il popolo e quindi a tutti i
cittadini che lo compongono». Ciò significa che i poteri della
maggioranza non sono illimitati, «proprio in contrasto con il
diffuso luogo comune che confonde la democrazia, cioè il governo
di tutto il popolo, con il governo della maggioranza» [Basso
1998, p. 178: corsivo aggiunto da me].
Il Governo in democrazia,
dunque, rappresenta tutto il popolo, e non solo una parte del Paese,
degli elettori, dei cittadini, ecc.: esso è certamente espresso
dalla maggioranza parlamentare, ma in quanto organo che riceve la sua
investitura e i suoi poteri dal “sovrano”, ovvero dalla totalità
del popolo (nelle sue molteplici componenti), «deve tener conto non
solo dell'esistenza ma anche della volontà della minoranza» [Basso
1998, p. 180]. Sul piano pratico ciò vuol dire che
l'indirizzo politico del Governo sarà determinato dalla maggioranza,
ma l'azione di governo dovrà tener conto, nei limiti del possibile,
anche degli indirizzi dell'opposizione.
Oggi forse questo principio
enunciato da L. Basso può avere ulteriori e più incisivi sviluppi,
se lo si considera non più soltanto in rapporto alla dialettica fra
maggioranza e opposizione (e dunque fra soggetti politici all'interno
del Parlamento e delle istituzioni rappresentative), ma anche in
relazione al ruolo degli istituti di democrazia partecipativa (e
dunque in riferimento al rapporto fra cittadini e istituzioni).
Se dovessimo far riferimento
alle due tipologie di democrazia individuate da Arend Lijphart,
ovvero il “modello Westminster” (o maggioritario) e il “modello
consensuale”, potremmo annoverare con molta probabilità Lelio
Basso fra i sostenitori del modello “consensuale” di democrazia.
Non è detto però che la democrazia “del consenso” tratteggiata
da Basso coincida perfettamente con la democrazia consensuale nella
definizione datane da Lijphart; non c'è lo spazio per soffermarsi su
questo punto, che ci porterebbe lontano dall'analisi del Principe
senza scettro, ma è opportuno ricordare brevemente che secondo
Lijphart sono democrazie “maggioritarie” quelle in cui «le
maggioranze dovrebbero sempre poter governare e le minoranze rimanere
all'opposizione», e sono invece “consensuali” le democrazie che
rifiutano la contrapposizione netta fra maggioranza e opposizione,
giacché «la regola di maggioranza e il modello di governo ad essa
legato […] potrebbero essere considerate addirittura espressioni
non pienamente democratiche, in quanto fondate su un principio di
esclusione» [Lijphart 2014, p. 55].
Se il modello maggioritario
sembra funzionare in «società relativamente omogenee» [Lijphart
2014, p. 56], in società attraversate da profonde fratture
culturali, religiose, etniche, ecc., e quindi sostanzialmente divise,
invece «la regola maggioritaria porta alla dittatura della
maggioranza e alla guerra civile, e non alla democrazia. Ciò di cui
ha bisogno questo tipo di società è un regime democratico che ponga
l'accento sul consenso più che sull'opposizione, che includa più di
escludere e che tenti di allargare al massimo le dimensioni della
maggioranza di governo, anziché accontentarsi di una maggioranza
risicata.» [Lijphart 2014, p. 57]
Secondo Lelio Basso, la
Costituzione italiana, facendo propria l'evoluzione che vi è stata
nella concezione della dialettica Stato/cittadini,
governanti/governati e collettività/individui, ha inteso dare al
popolo (nel senso di “popolo-pluralità”, come si è detto) la
facoltà di esercitare appieno il suo potere sovrano [Basso
1998, p. 187]. Se «ogni
cittadino è portatore di una porzione di sovranità e partecipa
all'esercizio della funzione sovrana» [Basso
1998, pp. 187-188], in maniera
permanente (cioè non soltanto al momento del voto), si può
affermare che «il cittadino è, in un certo senso, un funzionario,
un funzionario chiamato all'esercizio della suprema funzione statale,
quella sovrana», proprio perché questa è permanente ed è
costantemente nelle mani dei cittadini – anche se in effetti il
cittadino-sovrano «non è di continuo nell'esercizio delle sue
funzioni» [Basso 1998, p.
188].
Se
misurato in rapporto a ogni singolo cittadino, non è un esercizio
effettivamente “continuo” solo per “motivi tecnici”, potremmo
dire; ma potenzialmente esso – se considerato in un'ottica
collettiva – non s'interrompe mai, giacché «l'esercizio di questa
funzione si esplica anche attraverso i partiti, le associazioni e gli
enti minori e l'attività di questi, a sua volta, si esercita
quotidianamente sulla stampa, nelle riunioni e così via» (oggi
potremmo certamente aggiungere all'elenco anche il Web) e ciò
implica che «quelli che un tempo apparivano come diritti “naturali”,
come sfere autonome di attività individuale da contrapporsi alla
sfera di attività pubblica, come libertà limitatrici del potere,
possono essere considerate anche come momenti essenziali
dell'esercizio del potere, non contrapposte quindi, ma coessenziali»
[Basso 1998, p. 188].
I
diritti delle persone, in
primis quelli politici (ma non
soltanto), non sono perciò concessioni dello Stato che si
“autolimita”, ma «una limitazione che il potere sovrano del
popolo impone agli organi da lui dipendenti» [Basso
1998, p. 188]. E' una sorta di
“rivoluzione copernicana” nel modo di considerare i diritti di
libertà, i quali in questa maniera vengono fatti derivare
direttamente
dai princìpi della democrazia e non passano più attraverso la
“mediazione” esercitata dagli assiomi del liberalismo (se non in
misura limitata “allo stretto necessario”).
Per
Lelio Basso «la democraticità dello Stato sarà tanto maggiore
quanto più intima sarà questa coessenzialità, quanto più cioè il
potere sarà diffuso e il suo esercizio si esplicherà come momento
di libertà» [Basso 1998, p.
188].
Il
potere dello Stato, insomma, in una democrazia non può esercitarsi
che allo scopo di garantire e accrescere l'equità sociale, la
giustizia, le opportunità di vita e di emancipazione delle persone,
lo sviluppo delle loro conoscenze e delle loro capacità: infatti
queste considerazioni riguardano non soltanto i diritti politici in
senso lato, ma anche «ogni diritto inerente alla tutela della
personalità, il cui sviluppo è condizione delle qualità necessarie
al cittadino sovrano» [Basso
1998, p. 188].
I
cittadini, in democrazia, in quanto sovrani, non solo non sono più
sudditi sotto il profilo del diritto (de
iure, direbbero i giuristi),
ma non devono neppure più essere
trattati come sudditi da parte
dei pubblici poteri, dei funzionari pubblici e della Pubblica
Amministrazione in genere (non sono insomma più sudditi neppure de
facto, per usare ancora il
linguaggio dei giuristi, altrimenti – se la qualifica di
“cittadini-non-sudditi” viene riconosciuta solo de
iure e non nei fatti –
vengono violati i princìpi della democrazia, che sono molto esigenti
e pretendono che i fatti corrispondano agli enunciati di diritto).
Come
ricorda L. Basso, un tempo, prima dell'avvento della democrazia,
quando appunto i cittadini erano soltanto sudditi (immancabilmente de
facto, ma talora anche de
iure), e i funzionari
ritenevano di dover rispondere del loro operato soltanto ai propri
superiori che rappresentavano “il sovrano” (fosse questi un
monarca o un governo che incarnava il popolo soltanto sulla carta),
«ogni rappresentante di questa autorità si sentiva un caporale
dell'ordine politico e sociale, un rappresentante del sovrano, e
quindi in diritto di comandare ai sudditi», limitando a suo
piacimento i diritti di riunione, di associazione e di stampa, in un
quadro nel quale «il potere discrezionale della polizia non era che
un momento dell'esercizio del potere sovrano» [Basso
1998, p. 189].
In
proposito Lelio Basso fa una riflessione che è certamente legata
alla situazione del tempo in cui egli scrive (nel 1958 il fascismo
era caduto da “appena” tredici anni), ma che per molti aspetti è
utile per meditare anche oggi: «E' certamente difficile far
comprendere a un prefetto, a un questore, a un commissario di polizia
o a un maresciallo dei carabinieri che la situazione
politico-giuridica è oggi completamente mutata: che essi rimangono
sempre al servizio del sovrano, ma che il nuovo sovrano è il popolo
nella sua totalità, e che perciò la loro funzione precipua è,
oggi, non già quella di difendere il sovrano contro un pericoloso
estendersi della sfera di libertà, ma quella di garantire la piena
esplicazione della libertà proprio in quanto esercizio in atto del
potere sovrano.» [Basso 1998,
p. 189]
Ciò
ovviamente non significa lasciare campo libero agli eccessi dei
singoli e dei gruppi (i funzionari statali «proprio perché la loro
autorità discende dalla potestà d'imperio che spetta al sovrano,
cioè al popolo nella sua totalità [e non ai singoli in maniera
estemporanea: nota
esplicativa mia], hanno il
dovere di intervenire contro chiunque disubbidisca agli ordini del
sovrano legittimamente impartiti, nelle forme e nei limiti stabiliti
dalla Costituzione e dalle leggi» [Basso
1998, pp. 190-191]), ma
certamente tra gli eventuali atti arbitrari dei pubblici poteri da un
lato, e l'arbitrio di singoli o gruppi che eventualmente approfittano
in maniera scorretta della libertà, dall'altro (gli estremi si
toccano, e non si giustificano reciprocamente in alcun modo, si
potrebbe dire...), c'è tutto uno spazio di civiltà democratica da
preservare.
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